martedì 27 febbraio 2018

Lorenzo Merlo: "Costume e populismo. Il movimento silente degli astensionisti"


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Dipinto di Franco Farina

Populismo ha un sinonimo. È superficialità.  
Ma ha anche una biografia, e questa è tutt’altro che superficiale, tutt’altro che priva di dignità, almeno pari a quella che chiediamo per noi stessi. Ed è qui che vale la pena di soffermarsi, affinché coloro che tacciano di populismo chi la pensa diversamente, possa trovare le sue responsabilità dell’attuale stato delle cose.

Tutto il mondo in quattro punti

L’operoso provincialismo urbano e l’ingenuità rurale, nel dopoguerra italiano si mescolarono in una umana ricetta di solidarietà che solo a pensarci ci si commuove. Quasi fossero consapevoli che l’individualismo riduce l’amore.

Con la pietanza del boom economico tutti si riempirono la pancia (senza troppi secondi sensi). I pastori sardi lavoravano in Fiat, le bambine siciliane andavano finalmente a scuola. Le donne lottavano. Gli studenti, con una chimica impossibile, fecero molecola con gli operai. Questi risalirono la corrente per arrivare all’origine di come stanno le cose e riuscirono a farsi riconoscere almeno una parte di dignità.

Il fervore comune era tale che c’era una colonna sonora sociale unica per tutti. Sentire oggi Il mio canto libero, La locomotiva o Crosby Stills Nash and Young è letteralmente essere là, in quel sentimento legante. Essere corpo unico verso qualcosa di imminente e di migliore.

La strategia della tensione, occulta e leviatana figlia di padre Stato e madre Nera, lasciò sul campo la gente comune e mancò di poco il suo obiettivo totalitaristico.
La protesta armata, che apparentemente non portò che a morti emanazioni dello Stato, non ebbe il seguito necessario per ricostruirsi una legittimità. Mise però in evidenza, per la prima volta, il vassallaggio italiano nei confronti della longa manus di servizi segreti italiani e stranieri. 

Chetate le acque si avviarono ragionamenti meno estremistici sebbene altrettanto illegali. Mi riferisco al finanziamento ai partiti, alla corruzione, all’evasione fiscale, alle mafie. 
L’importazione dell’edonismo reaganiano, esaltazione dell’individualismo, si propagò veloce come una miccia accesa verso le ideologie ancora apparentemente in salute della destra popolare e della sinistra, ma di fatto già minate. Per i politici, il ritrovo per l’happy hour era più sentito di quello in parlamento. Per molti i soldi erano facili e spenderli ostentatamente, uno status symbol da sbattere in faccia a chi stava indietro.

Tangentopoli rase al suolo la classe politica, ma come Attila fece terra bruciata. Sotto l’egida dello slogan, lo stato come un’azienda, nacquero governi, piani finanziari e politiche estere all’ombra del bungabunga e di promesse spettacolari, nei confronti delle quali la sinistra da tempo sterile, non aveva altro che freccette colpevolizzanti, di poco conto.

Si iniziava a percepire che ciò che stavamo diventando, le modalità storiche con le quali avevamo in passato trattato il prossimo e osservato il mondo stavano venendo meno.

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I piani mondialistici delle cricche capitalistico-finanziarie ebreo-americane stavano pilotando bene la loro motonave anche in acque italiane. Internazionalmente parlando per mantenere la rotta egemonica suggerivano ai governi le opzioni da preferire, creavano guerre, pilotavano la comunicazione. ()

I paladini del liberismo sotto la bandiera della globalizzazione, avanzavano convincendo molti che le alternative erano tutte peggiori. Lo tsunami che provocarono, annegò gli ultimi scogli delle nazioni, delle ideologie, delle economie locali, della solidarietà, del comunitarismo, delle province e di tutte le dinamiche relazionali tra queste dimensioni, nientemeno del tessuto con il quale ci vestivamo.

Avendo da anni delegato la politica – come tanto altro – a fare e pensare in nostra vece, abbiamo creduto alle promesse senza verifica alcuna. E con quelle ci siamo rivestiti. Abbiamo soprasseduto su un’Europa che, a pensarci bene, come per la democrazia, non è mai esistita, almeno per noi dell’ultima fila, così come ce l’avevano venduta.

A qualunque partito si fosse guardato con simpatia, nelle tasche dei bei vestiti nuovi, non trovammo più le nostre cose. Né la morale del Vangelo, né la mappa delle conquiste dei lavoratori, né la nostalgia. C’erano i video dei radical chic. Parlavano di tutto ma non più di quello che ci interessava. Dedicati ai più popolari diritti individuali, difendevano tutto e tutti, mentre le banche, il debito pubblico, la disoccupazione, gli articoli 18, le mazzette, le privatizzazioni, l’immigrazione fuori controllo, la malasanità, i cappi della burocrazia, le carceri piene, i delinquenti fuori, le pene in prescrizione potevano battere bandiera panamense e attraccare a banchine un tempo off-limits.

Non si occupavano del signoraggio bancario, del degrado sociale, della sudditanza militare, monetaria, nazionale, il progressismo lo esigeva, punto.

Lo iato tra chi comandava e chi lavorava era divenuto via via più radicale. La fiducia era bruciata e non servono metafore, né aggiunte per misurare quel tipo di disastro, tranne che chiamarlo delitto, lutto. Neppure le istituzioni godevano più della I maiuscola, se non per le partite dei partiti.

Così è stato fecondato il populismo. Movimento silente di astensionisti. In crescita costante dall’epoca della questione morale di Berlinguer. Erano gli anni ‘70. Saltato il tappo del barattolo delle ideologie, pompato da amminoacidi di consumismo, quel popolo si è moltiplicato senza avere un valore da seguire, facile preda di emozioni. Ora spesso si raduna ancora, ma non in piazza e contro qualcosa, preferisce i centri commerciali, pensa per sé.

Razzismi e pensieri di governi forti occupano sempre più le menti di quegli orfani in cerca di famiglia. Qualcuno l’ha trovata. Osservando che le discendenze di destra e sinistra sono incredibilmente salite sulla medesima scialuppa e dialogano su come riprendere terra, ha deciso di essere del gruppo.

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Tracce del nuovo paradigma

Ma nella contrazione generale che tutto ha coinvolto, c’è uno spazio che si espande e respira sotto le macerie della post-modernità. È una vena sottotraccia che non ha ancora il linguaggio idoneo per uscire e pubblicarsi, ma lo troverà. Si tratta delle voci di coloro che in tutto questo decorso, che alcuni non esitano a chiamare catastrofico, riconoscono la presenza satanica di un comune genitore, il materialismo tout court. Con i suoi figli, il positivismo, il capitalismo, lo scientismo, l’imperialismo; con i suoi nipoti, l’opulenza, il culto della personalità e quello del denaro; con i suoi dogmi, per il progresso ad infinitum, per la tecnologia, per il tempo lineare, per l’apparire, forma una famiglia piuttosto invadente e pesante, che oscura e mortifica l’intelligenza del cuore, la bellezza di ognuno, il senso del bene comune, l’equilibrio individuale e sociale. 

Nel tempo lineare il presente si allontana da noi e va verso il passato. Intanto ci sentiamo procedere verso il futuro, candidi e indenni nei confronti di ciò che abbiamo fatto. Al contrario, al bene comune corrisponde il tempo circolare. In esso ogni azione o sentimento è lì a ripresentarsi nel suo valore maligno o benigno, tanto a noi stessi, quanto ad altri noi. La sua frequenza o il suo raggio è relativo alla nostra condizione, al nostro sentimento. Esattamente  come varia l’intensità del dolore in funzione della sua accettazione — leggi assunzione di responsabilità di quanto l’ha causato — o rifiuto — leggi, assegnazione di responsabilità —. Un argomento che, in termini toltechi, riguarda il dominio del tempo. Più a oriente di chiama accettazione, perdono tra i cristiani.

Quelle voci appartengono a uomini e donne mute, antesignane dell’astensionismo. Da molto non hanno rappresentanza.  Ognuno a loro modo opera per estendere quello spazio occulto affinché divenga forza comune. Parlano con circospezione di spiritualità, sanno che può essere facilmente fraintesa. Evitano di citare che stanno solo cavalcando le vie già tracciate dai Maya, dai Toltechi, dagli Egizi, dal Buddhismo, dalla Kabbalah e da altre tradizioni tra cui il Cristianesimo, quello vero non quello posticcio, populista, superficiale appunto che la religione ci ha fatto conoscere. Sanno che per qualcuno, siccome non si può toccare, siccome la scienza dice che non c’è, non esiste, non è misurabile, è un tabù, meglio non toccarlo. Siccome non lo dice il metodo, né la regola, non va bene. Sanno che sono quelli che risolvono la questione accusando di ciarlatanismo a destra e a manca. Lo fanno serenamente, hanno tutta la loro famiglia culturale a proteggerli. Eppure, come con le diete seguite per colpa di pressioni culturali, dove, indipendentemente dai risultati, non impari nulla su te stesso, anche il metodo, che ci addestra a risposte predefinite, non permette di maneggiare la materia dei nostri limiti . Non contiene alcuna maieutica per scoprire come spostarli più in là, come evolvere. 

Sanno anche di essere al cospetto di un lento, inesorabile switch storico prodotto del cambio di frequenze energetiche dell’universo, che implica cambi di paradigma al quale l’uomo non potrà sottrarsi. Sanno che siamo ad una concezione provincialista del cosmo e si adoperano per ampliarne il campo. Sanno e sentono che è in atto un passo evolutivo verso una convivialità nuova. L’avvento della fisica quantistica ne è un segno, sebbene il peso sociale avrà bisogno di tempo per compiersi.

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Eppure, spiritualità ha un senso elementare. Significa essere nel qui ed ora. Una specie di formula alchemica spesso impropriamente declamata. Essere su pezzo, per dirla con modalità giornalistiche o psicologiche; essere identificati con quanto stiamo facendo, annullare il tempo, divenire eternità. Essere quindi creativi e forti al meglio delle nostre potenzialità. Ma il contenuto della dimensione spirituale lo si riconosce anche con un sinonimo adatto a questi tempi: benessere fisico e interiore. 

È un senso che, come qualunque altra dote, va coltivato ed è allenabile. Come ogni percorso ha la sua durata, le sue difficoltà, le sue ricadute. Arrivati in vetta, se ne vedono altre, altrettanto lontane e impegnative. Tuttavia si capisce che il mondo è sempre quello, eppure è diverso. Come nella fisica quantistica, ma l’avevano detto le Tradizioni da migliaia di anni, a secondo dell’interlocutore le particelle possono avere carattere ondulatorio o materico. Una magia, per chi non c’arriva, dalla quale è doveroso guardarsi. Una banalità per chi l’ha ricreata, dalla quale non può più prescindere. Perché quelle scoperte non riguardano solo i laboratori dell’infinitamente piccolo. Riguardano quello che pensiamo, che facciamo, che sentiamo.

Se prima credevamo che le cose fossero separate, se prima potevamo usare la forza, forse anche la semplice intelligenza dialettica per sopraffare il prossimo, ora, dalla cima, le cose appaiono nella loro contiguità, gli altri sono dei noi a tutti gli effetti, prendiamo coscienza che pensare e fare del male al prossimo sia esattamente farlo a noi. Prendiamo coscienza che siamo totalmente i responsabili della realtà individuale e sociale che viviamo. Siamo consapevoli che senza il nostro lavoro, non potremo lasciare alle future generazioni qualcosa di meglio di quanto abbiamo finora realizzato. Siamo ora capaci di affermare che la politica dello scontro, quella delle opposte fazioni, della negazione del rispetto, perpetuerà la storia così come la conosciamo. Di conseguenza lavoriamo per andare oltre il dualismo dello scontro, per realizzare la realtà attraverso il modo della relazione. Non più oggettiva, ma relativa a me. È tempo per riconoscere che quanto ci appare ovvio e vero non è che l’appiattimento del nostro genio nei confronti delle descrizione della realtà che abbiamo appreso dai genitori, dall’ambito di nascita e infanzia. Tanta altra ce n’è, se vogliamo.

Ci sono due livelli di consapevolezza. Uno, nel quale è come se ci si avvedesse di qualcosa che era sempre stato lì e che mai avevamo notato. Questo livello è il più diffuso, lo si potrebbe chiamare intellettuale. Siccome permette all’ego una certa soddisfazione, facilmente ci si ferma lì, come se quanto c’era da fare fosse stato fatto.

L’altro potrebbe essere chiamato livello d’incarnazione. Oltre a quanto già dicano le parole utilizzate per nominarli, la differenza tra i due è ulteriormente semplice. La consapevolezza intellettuale corrisponde a un sapere che prima non avevamo. Come tutti i saperi riguarda la sfera dell’io. In sostanza è un avere. La consapevolezza intellettuale è però già un passo. Ci strappa dall’ottusità dell’ego e ci permette di vedere noi stessi al pari degli altri. Permette di riconoscere quale morale strumentalmente utilizziamo a nostro vantaggio per erigerci sopra gli altri. 

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La consapevolezza incarnata riguarda invece la sfera dell’essere. Con l’avere noi maneggiamo quel nuovo dispositivo nelle relazioni, affinché l’io se ne giovi. In sostanza è una questione di autostima. Con l’essere non abbiamo più bisogno di mostrare quella consapevolezza come fosse qualcosa di prioritario, da esprimere e trasferire ad altri. Essa uscirà dal nostro fare non dal nostro dire. Non godrà di nessuna nostra difesa. Non è un’allusione a divenire concorrenti di Madre Teresa di Calcutta che probabilmente non avrebbe saputo scrivere un saggio sulla consapevolezza in quanto era e non aveva. È invece una considerazione sostenuta dall’idea che tutti noi abbiamo  il nostro gradiente specifico a disposizione per essere incrementato. 

Una vorrà convincere, scuotere gli altri. L’altra lancerà reti senza pretese di pesca. Tuttavia ogni tanto qualcuno resterà tra le maglie. Se vorranno li lascerà andare. Non eserciterà su loro alcun potere, se non maieutico al loro percorso evolutivo. Non vuole imporre il proprio ordine al prossimo. Ma non si tratta di una scelta razionale, né un’imposizione etica o razionale. È piuttosto un comportamento d’ordine estetico, sentimentale. Ovvero non si risente quando al cospetto di affermazioni a lui opposte. Non c’è più quel lui. È stato sostituito dall’accettazione, è stato svuotato d’orgoglio, una specie d’invulnerabilità.

Ovvero, restando soddisfatti del livello intellettuale non si cambia nulla, al massimo di fa moda. Con la seconda consapevolezza non c’è niente da cambiare perché si è già cambiato tutto. Per-mutare dalla prima alla seconda serve un pieno di umiltà, un cambio di abitudini. È qui il percorso nel quale immettersi. Così l’egoica pretesa di affermazione del verbo e l’emozione del vanto dialettico possono cessare, lasciando il campo all’amore. 

Tutti gli scientisti, ovvero, per cultura, tutti noi che ci affidiamo alla formula scientificamente provato o non provato per ritenerci dalla parte della verità abbiamo ora il necessario per comprendere che si erano felicemente appiattiti, su una cultura infarcita di superstizioni alle quali avevamo dato valore assoluto, con le quali avevamo abdicato a noi stessi. Il razionalismo, il materialismo, l’oggettività, la fisica meccanicista ne sono state le orbite formali di forte magnetismo, sulle quali abbiamo esplorato il poco cosmo che possono permettersi. 

Ma ora, che anche la fisica, nel suo step quantistico ha raggiunto le prospettive che necessariamente relegano la scienza classica a dato minore e niente più che autoreferenziale, ora che è stato dimostrato che averla creduta assoluta risulta quantomeno inopportuno, anche i signori scientisti, per restare fedeli al culto della scienza, dovrebbero avvedersi e rivedersi.

Fu impugnando la torcia dei lumi che si credette di poter ridurre la vita a sola materia. Socialmente parlando fu facile trasferire quelle convinzioni e reificare via via ogni cosa. 
Tutto ruotò e ancora ruota intorno al perno dell’economia. Niente ha finora potuto godere di più attenzioni di quanto non ne siano state date al Pil, alla produttività, al denaro. E se quello era il perno, sotto al giogo a tirare la pietra della macina eravamo, tutti noi. Ridurre tutto a economia è una specie di blasfemia nei confronti della vita. In quel miserabile piano di lettura noi, famiglia, società sono soltanto soggetti economici, definiti con le stesse parole utilizzate per le merci. Nel deserto di vetro e acciaio della mente economica non v’è traccia di relazioni umane, del loro valore sostanziale.

Il presuntuoso predominio sulla natura e su tutti gli esseri senzienti è una superstizione che sta culturalmente barcollando, come dopo Copernico, che aveva fatto notare che la Terra non era al centro dell’universo, l’uomo non è al centro di niente se non del proprio ego. 
Fu così che la natura, gli animali, la terra, l’ambiente, i loro cicli, furono messi da parte insieme alla conoscenza sottile proveniente da tutte le geografie del mondo e delle epoche passate. In grama alternativa, considerati alla stregua di una proprietà privata o di cose di poco conto. Quel modo si è impadronito della nostra sensibilità. È rimasto legittimo per tanto e per troppo ma ora che ci si sta risvegliando, si chiama sfruttamento o arroganza. Ora è chiaro che stiamo tagliando il ramo sul quale siamo seduti.

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C’è ancora chi continua a tagliare, a tirare dritto verso il baratro. Non vede che le sue verità, che voler raggiungere la verità alimenta esattamente ciò che andrebbe smorzato: l’implicita lotta, per difenderle, al momento giusto diviene fondamentalismo. Un concentrato sulla propria affermazione che non guarda allo strazio che provocherà. A quel tipo di uomo interessa solo il successo di ciò in cui si identifica. 
È costituito anche da queste cose il paradigma capillare di cui è piena la nostra fisiologia. È anche in queste cose che possiamo riconoscere l’esigenza e le modalità su come andare oltre, su come liberarcene, su come non perpetrarlo e perpetuarlo. È nelle nostre potenzialità realizzare altro, esattamente così come abbiamo realizzato queste.

Ai tempi nostri, tanto la destra popolare che la sinistra popolare non hanno mai preso le distanze da quel materialismo, dal capitalismo. Non ne hanno mai vista la disumanità. Non hanno mai fatto caso che su quella via uccidevano tutta l’intelligenza del sentire, tutta la capacità di creare. A testa alta, le loro scelte tenute su dal valore economico, hanno distrutto coste, valli e paesaggi. 

Diversamente ha sempre detto e fatto la cultura spirituale della destra tradizionale, da sempre anticapitalista. Le sue altre espressioni, quali il razzismo e il nativismo, il paganesimo modulate con maturità, non sono altro che l’attuale localismo, bioregionalismo, decrescita e recupero della sacralità della natura. Aspetti e dimensioni della realtà, dell’individuo, della socialità che ora stanno emergendo nelle coscienze di tutti.
Significa che molte idee prima espressioni di un colore ora sono espressioni d’intelligenza e quello considerate. Significa cioè una liberazione da preconcetti e tanto altro. C’è di mezzo un’ecologia della mente, senza la quale  convinzioni e dogmi continueranno a intossicarci, a ucciderci vicendevolmente e da soli.

Oggi siamo avveduti delle carte che abbiamo in mano. Non vogliamo più giocarle dietro consiglio di qualcuno o di qualcosa d’altro che non sia il nostro sentire. Non vogliamo più creare società, uomini dominati dalla paura che li obbliga ad anelare sicurezza, che gli impedisce di volare, che gli castra l’atteggiamento creativo, la sua potenza più infinita. Né individui e società alienate, psicopatiche, per le quali è ordinario e comprensibile lo sfogo della violenza sugli altri e su sé. Il progresso ci ha messo all’angolo di noi stessi. Ci ha comprato come con gli specchietti comprava i nativi e i colonizzati. È bastato un benefit o un mutuo per la tv al plasma. Ci ha devastato lo spirito creativo. 
È tempo di riprenderlo.

Lorenzo Merlo - xex@victoryproject.net

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