giovedì 30 novembre 2017

Origine del mondo, tra fisica e metafisica


La scienza comincia ad avvicinarsi sempre più alla filosofia. In effetti il pensiero metafisico e l’analisi del mondo fisico sono due descrizioni che collidono, entrambe attingono alla realtà percepibile per mezzo della coscienza.
Che gli universi fossero continuamente creati e distrutti uno dopo l’altro in una sequenza infinita è la conclusione del pensiero vedico e upanishadico, come pure di quello taoista. Tutto scorre (panta rei) tutto si trasforma tutto si scioglie tutto riprende forma. In continuo evolversi in continua trasformazione.
Come dire che la sostanza primordiale è la stessa mentre gli aspetti manifesti sono diversi. Per comprendere analogicamente questa verità basterà osservare la metamorfosi della vita su questa terra.
Non ci sono due cristalli di neve uguali, non ci sono due foglie dello stesso albero uguali, in una distesa di sabbia ogni granello è diverso, nell’umanità ogni uomo è unico ed irripetibile, persino attraverso la clonazione è stato riscontrato che esistono differenze fra il modello originale e la copia….
Insomma la vita è totalmente varia…. Questa varietà è la caratteristica dominante.. che allo stesso tempo evoca l’unitarietà di fondo…. Come avviene nell’osservazione delle figure formantesi in un caleidoscopio, gli specchietti e i cristalli sono gli stessi ma le immagini appaiono sempre diverse.
Così eone dopo eone universo dopo universo big bang dopo big bang la vita continua a manifestarsi in una policromia di colori, di forme incommensurabilmente diverse ma attingenti alla stessa matrice: la coscienza. La consapevolezza dell’Uno che si fa molti.
Questa era anche la visione del nostro filosofo e spiritualista laico Giordano Bruno. Egli aveva intuito la vera essenza, la sorgente universale, e la possibilità degli universi continuamente ricreati e paralleli.. Il fuoco d’artificio eternamente manifesto e inestracabilmente congiunto di Spirito e Materia. Che la sua intuizione non fosse stata accolta dai suoi contemporanei, e gli provocò anzi un’atroce morte, dal punto di vista del pensiero astratto e della realtà delle cose ha poca importanza… Ed inoltre, nella percezione dualistica, l’intelligenza ha bisogno della stupidità per risultare evidente.
Ciò che è vero lo è sempre e non abbisogna di conferme… è autoesistente. Come ognuno di noi può riscontrare nella sua stessa identità e senso dell’essere che non abbisogna di venire corroborata da agenti esterni.. anzi sono gli agenti esterni ad essere corroborati nella loro presenza ed esistenza dal “noumeno”, dal soggetto!
La verità non può essere raccontata poichè il racconto non è la sostanza.
Ed ora ecco un’altra faccia della medaglia, quella della visione scientistica: Martin Bojowald ha lavorato per sei anni intorno alle complicate equazioni che sorreggono la sua teoria. Oggi finalmente è potuto uscire allo scoperto su Physics Nature per dire che l’universo non è nato con il Big Bang. Quando si verificò il “grande botto” al quale si fa tradizionalmente risalire la creazione del mondo che conosciamo, l’universo esisteva già. Anzi, il Big Bang non fu altro che un “ripiegamento”, un “rimbalzo” della materia preesistente.
Uno dei limiti della teoria del Big Bang, descritta matematicamente da Einstein, è che in un dato momento tutta la materia era concentrata in un punto con volume zero e massa ed energia infinite. Secondo le leggi della fisica, impossibile. Ora gli scienziati dell’università di Pennsylvania State University, coordinati da Bojowald, dicono che prima della nascita del nostro universo ce n’era uno simile che però collassava su se stesso. Unendo la teoria della relatività ad equazioni di fisica quantistica, alla Penn State è nato il primo modello che descrive sistematicamente l’esistenza di un universo preesistente al nostro, e che ne calcola alcune caratteristiche.
Secondo il modello (Loop Quantum Gravity, o Lqg), il vecchio universo stava collassando rapidamente, fino a raggiungere uno stato in cui la gravità e l’energia erano così alte (ma non infinite, come sostenuto dalle teorie precedenti) che la repulsione reciproca ha fatto invertire il processo e ha dato vita all’universo in espansione che conosciamo oggi. Per i fisici americani, anche se molto simili fra loro, gli universi “pre” e “post” rimbalzo non erano uguali: le equazioni che li governano infatti hanno almeno una variabile differente, che Bojowald chiama il “fattore di dimenticanza cosmica”. Cioè l’assenza di almeno un parametro dell’universo “pre” nell’universo “post”. Il che impedisce anche l’infinito replicarsi di universi gemelli. (Fonte: Il Messaggero)
“Ab aeterno – La realtà non può essere descritta perché non può sussistere una scissione fra osservatore, osservazione ed osservato…” (Saul Arpino)
Paolo D’Arpini

martedì 28 novembre 2017

Ecologia profonda - Il "valore intrinseco" della "Vita umana e non umana sulla Terra" - Intervista con Eduardo Zarelli


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Il "valore intrinseco" della "Vita umana e non umana sulla Terra", Intervista sull'Ecologia profonda con Eduardo Zarelli

Wyoming

Eduardo Zarelli si riconosce nei principi che animano il movimento degli ecologisti profondi. Eppure, agli stessi deep ecologist vengono mosse precise accuse. Si pensi ad esempio ad Alain de Benoist, per rimanere vicini ad un autore caro ai lettori di Diorama, ma anche a una delle teoriche dell’umanesimo ecologico, Luisella Battaglia. Quest’ultima (nel suo Alle origini dell’etica ambientale, Dedalo), utilizzando come filtro le analisi di Luc Ferry, incolpa il movimento di misantropia, di non dare la giusta importanza, all’interno del dato naturale, alla specificità esistenziale e simbolica dell’uomo, che viene ridotto al solo ruolo ecologico. 

Un'altra nozione che suscita un giudizio negativo della filosofa è quella di "valore intrinseco" della "Vita umana e non umana sulla Terra", proposta come primo principio della piattaforma del movimento dell’ecologia profonda. Questo stesso principio implica un’affermazione di eguaglianza biotica di tutti gli organismi della terra in quanto partecipi di un tutto interrelato, e presuppone una nostra totale immanenza alla natura. Si tratta di un processo di sacralizzazione dell’armonia naturale che priverebbe l’uomo dell’esercizio della moralità conducendolo a una pericolosa deriva antiumanistica.

Domanda - Concorda con questo tipo di analisi? Si può veramente definire il movimento dell’ecologia profonda come caratterizzata da una tendenza di pensiero anti – umanistico” e antispecista?

L’ecologia del profondo è un riferimento generico, che accomuna pensatori non omogenei come Arne Naess, Gorge Sessions, Bill Devall, Gary Snyder. Costoro, con sensibilità diverse, hanno avuto il merito di sollevare la questione ambientale dal conformismo sociale e politico della tarda modernità. In particolare, hanno considerato il rapporto tra natura e cultura come punto centrale nella riflessione critica del modello razionalistico occidentale; questi autori sottolineano il “valore intrinseco” della natura, affermazione genericamente condivisibile, ma con alcune contraddizioni, che marcano la necessità di un distinguo, al fine di una evoluzione teorica.
L’ecologia nasce nella seconda metà del XIX secolo su basi positiviste, definendosi come la totalità della scienza delle relazioni dell’organismo con l’ambiente. Indipendentemente dalla evoluzione culturale del termine, il calco scientifico delle origini si perpetua nell’ambientalismo contemporaneo. L’osservato è distaccato dall’osservatore, l’uomo, che dualisticamente preserva se stesso senza mutare l’approccio relazionale con la natura.

L’ecologia del profondo, in controtendenza, opera un’inversione di paradigma e colloca l’uomo nella natura, criticando la civilizzazione tecno-scientifica dell’habitat. Conseguentemente, afferma una empatia relazionale, che si manifesta nella consapevolezza dell’appartenenza di tutti gli esseri viventi al mondo naturale. L’ecologia profonda oltrepassa l’approccio scientifico fattuale, per raggiungere la consapevolezza del sé e della saggezza della manifestazione naturale. L’uomo, olisticamente, viene inteso come parte di un tutto “cosmico”. L’implicazione di questo principio è l’ecocentrismo, secondo cui la natura va protetta di per sé, per il suo valore intrinseco, indipendentemente dall’utilità strumentale o intergenerazionale. Se arrechiamo danni alla natura, danneggiamo noi stessi. Il tipo di approccio alla realtà, che se ne ricava, è radicale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura. Occorre agire sulle cause, invece che sugli effetti.

Non c’è bisogno di fare nulla di nuovo, basta riattualizzare qualcosa di molto antico, di arcaico: la comprensione della saggezza della Terra e degli equilibri relazionali ecosistemici, la consapevolezza del rapporto di simbiosi omeostatica del vivente. “Andare all’origine delle cose” significa, di conseguenza, decostruire la macchina tecnomorfa creata dallo scientismo, superando l’approccio parziale e riduzionista e immedesimandosi ontologicamente con l’essere manifesto.

Le forme più radicali di tale approccio arrivano ad immaginare la preservazione della natura come sua inibizione all’uomo, riproponendo in forma complementare opposta il cartesianesimo, quasi che non esistesse alcun rapporto possibile con la natura, se non quello dello sfruttamento meccanicistico o della contemplazione ascetica. In realtà, il problema è praticare la via indeterminata del giusto mezzo, all’insegna del riequilibrio olistico tra cultura e natura. Le stesse tematiche più oltranziste, legate alla wilderness, parlano dell’incontaminato come richiamo all’elementare psicologico e istintuale perduto dall’uomo civilizzato, come risorsa per la ri-connessione con la comunità del vivente, più che di un solipsismo naturalistico.

Luisella Battaglia, sulla scia del Principio di responsabilità di Hans Jonas, richiama la moralità dell’uomo alla responsabilità nei confronti della sopravvivenza del proprio habitat, da cui dipende la sua stessa esistenza. Umanisticamente, finisce per riconoscere nell’interdipendenza di tutti gli esseri un oltrepassamento del confine tra umano e non-umano e, conseguentemente, una visione della terra non più come risorsa da sfruttare, ma come bene da tutelare. 

L’equivoco da superare consiste nel contrapporre l’umanesimo all’ecologismo, come se l’amore per la natura comportasse l’odio per gli uomini. Si può convenire, quindi, con la pensatrice sulla necessità di evitare sia l’antropocentrismo che il biocentrismo. Le due concezioni, nel loro reciproco estremismo, negano una visione olistica della realtà. Analogamente, Alain de Benoist oppone a ogni forma di dualismo un monismo pluralista, differenziato, fondato sulla dialettica dell’uno e del molteplice e rivolto a un’etica della complementareità. In tal modo, il cosmocentrismo, riproposto più o meno consciamente dall’ecologia del profondo, si qualifica oltre l’ingenuo panteismo universalista, spesso venato da impropri misticismi, qualificando la presenza umana nel mondo come scelta e destino di senso. Bisogna riconoscere la complessità stessa della natura senza le derive “antispeciste”. Il rispetto del vivente non implica l’eguaglianza indifferenziata tra uomo, mondo animale, mondo vegetale e mondo minerale, ma la consapevolezza della diversa ma relazionata manifestazione dell’essere.

In merito alla dimensione etica, credo sia conciliabile affermare che l’uomo è il solo soggetto capace di valutazioni morali, senza con ciò ritenerlo l’unico destinatario di considerazione morale. Certamente tale consapevolezza attinge legittimità su un piano metaetico, ove i principi informano la realtà, non su quello etico-normativo, giuridico-contrattuale.



Domanda - L’impostazione concettuale degli ecologisti profondi è regolata da un retroterra culturale – filosofico che ha portato avanti una critica radicale nei confronti della civiltà dei consumi, sostenuta dal pensiero liberale. Ma questo discorso ha alimentato il sospetto di un pensiero antimoderno, nemico del progresso e della conoscenza e conseguentemente nemico della democrazia di tipo occidentale che si è rafforzata grazie alla cultura capitalistica basata sulla centralità della tecnologia. Si pensa, quindi, che ostacolando l’attuale modello socioeconomico dominante, sostenuto dalle economie liberistiche, possa venire meno il benessere materiale delle popolazioni (che dovrebbe essere esteso a tutti gli abitanti della terra) con una conseguente crisi democratica. In quale modo si può rispondere a queste accuse?

Tra i meriti dell’ecologia del profondo abbiamo prima identificato l’emancipazione dal dettato riduzionistico-scientista. Ne consegue un paradigma epistemologico relazionale ed solistico, che collima con le culture tradizionali e sapienzali di Oriente e Occidente. Il Tao della fisica o La rete della vita di Fritjof Capra ben rappresentano questa sintesi culturale, che pone in palese crisi la modernità. In tal senso, dopo il principio di indeterminazione di Heisenberg, una nuova concezione, più articolata, del concetto di causa, siunisce alla scoperta, fatta dalla fisica quantica, dell’esistenza di una essenziale interazione tra le particelle del cosmo. Bohm può parlare, in analogia, a livello cosmico, di un ordine implicito – diverso dall'ordine esplicito apparente – contenente lo spazio-tempo, costituito da connessioni non causali, in cui le parti, che agiscono in modo relativamente autonomo, rappresentano solo forme particolari e contingenti dentro il Tutto. Questo ordine nascosto, di tipo olista, è simile a quello intuito dai "mistici” orientali, taoisti, buddhisti e induisti.

Insomma non è ormai più legittimo, scientificamente ed intellettualmente, omettere la ciclicità e la reversibilità dei fenomeni. Va da sé che tali presupposti hanno messo in discussione due assiomi dell’ideologia del progresso: la concezione lineare del tempo e l’ottimismo deterministico. Non solo, quindi, una critica del nichilismo della tecnica, ma anche del postulato economico della crescita illimitata, di un modello di sviluppo edonistico, massificante, insostenibile.

L’ambientalismo scientifico e politico sostiene invece la modificabilità riformistica del sistema liberal-capitalista, ipotizzando il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Tale teoria mira a correggere lo sviluppo classico, ma è incapace di considerarlo la causa profonda della crisi ecologica. Senza rimettere in discussione l’immaginario dell’homo oeconomicus, risulta illimitabile l’accumulo mercantile del capitalismo. L’ecologia del profondo o, per meglio dire, a questo punto, olistica, consapevole che il degrado antropico dell’ambiente è da ricercare nelle cause del modo di produzione, e non nei suoi effetti perversi, e coerente con il presupposto filosofico dell’appartenenza dell’uomo alla natura, propone una metanoia, una inversione di marcia verso un modello socio-economico, che rinserri l’economico nel sociale, e la sobrietà come vincolo alle necessità economiche. Questo è possibile in forme consensuali di democrazia partecipativa, comunitaria, con un principio di sovranità che oltrepassa il contrattualismo individualistico.

La politica che parte dalla base implica la sovranità condivisa, la partecipazione, il principio di sussidiarietà, il rispetto dei corpi intermedi e delle libertà fondamentali, la costituzione a ciascun livello di un equilibrio fra la deliberazione e la decisione. Tutto ciò, a dimensione locale. Il controllo democratico partecipativo del potere corrisponde comunitariamente ad un territorio condiviso. Il principio di reciprocità si evidenzia nelle identità di gruppo, ove è preminente l’aspetto simbolico-comunitario della relazione sociale. Tra i singoli, i rapporti sono regolati da forme generali di giustizia distributiva ispirate al dono e alla complementarietà. In tale contesto, norme e scambi sociali, fondati su consuetudini morali, legano organicamente l’economico all’istituzione sociale, comunitaria, quindi etica. La sobrietà dello stile di vita rafforza la ricostruzione del legame sociale e la sua capacità di esprimere peculiarità nello sviluppo autosostenibile riferito ai principi di “ciclicità” e di “limite”, insiti nella omeostasi della natura.

Questo federalismo intercomunitario è una risposta credibile e concreta alla crisi di legittimità delle democrazie procedurali occidentali, che invece si alimentano in una perversione degli interessi economici fino all’involuzione tecnocratica ed oligarchica, che va di pari passo con la onnipervasiva mercificazione del vivente.

Domanda - L’ecologia profonda stabilisce la fine della centralità antropica sancita dalla visione giudeo - cristiana. L’antropocentrismo deve essere superato, debole o moderato che sia e poiché l’etica ecologica cristiana è ascrivibile alla visione debole dell’antropocentrismo, pensa che possa essere definitiva la definizione dell’ecologia profonda come una forma di pensiero anti – cristiana; oppure che sia ancora possibile un punto d’incontro?

Nel nostro passato religioso possiamo ritrovare gli “antecedenti” di quella visione d'insieme necessaria all'uomo contemporaneo per riconnettersi al suo habitat naturale, per tornare a riabitare e non dominare, la Terra. Questo percorso di recupero, analisi e comparazione alimenta un dibattito filosofico-religioso, che investe il rapporto uomo-natura e si interroga sui risvolti etici della cosiddetta "crisi ambientale".

Questa tendenza muove dalla considerazione che le diverse tradizioni religiose, al di là delle loro differenze, nell'arco della storia hanno fornito un'immagine cosmologica come codice interpretativo della realtà, alcuni fondamenti per il vivere comune, una guida spirituale e pratiche rituali; fattori rivolti al superamento dei limiti individuali e attivi nella connessione dell'umano al cosmico. La maggior parte delle forme di religiosità animistiche e politeistiche tradizionali ha un carattere cosmico. L’universo viene da esse inteso come un insieme vivente correlato, del quale l’uomo è parte per il solo fatto di esistere. La natura è animata, il territorio si compone di luoghi sacri, il tempo è connaturato ai cicli cosmici celebrati ritualmente, si uniscono in un'eterna spirale il dare e il ricevere della vita e della morte, in una solidarietà profonda tra l’uomo e l’esistente. La natura è emanazione spirituale, a differenza dei monoteismi, che subentreranno universalisticamente nella storia della umanità. Questi, infatti, intendono la natura come creato, prodotto del libero volere di un Dio.

Paradossalmente, l’universo viene desacralizzato e svuotato delle sue forze spirituali; si apre così la strada – in una visione deterministica dello sviluppo storico – al razionalismo, che priverà di Dio una materia già morta e renderà l’uomo osservatore e manipolatore esterno del naturale.

L’olismo reagisce ad un antropocentrismo, che fa dell’uomo un valore autoreferenziale, riallacciandosi a una concezione del mondo tipica della religiosità delle culture tradizionali, che, da sempre giudicate superficialmente “società chiuse”, si rivelano, al contrario, aperte alla totalità del cosmo, e quindi malleabili, nell’organizzazione del corpo sociale, in una varietà di sfumature e di significati profondi, che permeavano il senso del vivere quotidiano.

Disse il capo indiano Duvamish al presidente statunitense Pierce, nel 1855: "Noi siamo una parte di questa terra ed essa è parte di noi. Non è stato l’uomo a creare il tessuto della vita; ne è solo un filo. Ciò che voi farete al tessuto, lo farete a voi stessi". Partendo da questa interpretazione tradizionale della natura, è possibile completare il biocentrismo, che altrimenti si riduce ad una improbabile parità di diritti giuridico-formali. In realtà, la natura vale per quello che è; non esiste una natura buona o una cattiva. Di conseguenza, l’uomo, pur non essendo l’unico essere “biocosciente”, è sicuramente l’unico ad avere consapevolezza di questa coscienza e grazie a questa, sulla base dei suoi presupposti naturali biologici, genetici e istintuali, rimane spiritualmente indeterminato e libero di scegliere. Il tentativo di una riconversione ecologica della civiltà industriale consiste nel cercare di risvegliare nell’uomo la profonda consapevolezza di essere parte del tutto, lasciandogli la libera volontà di decidere di farne parte armonicamente, sacralmente.

Su questo, il contrasto tra ecologismo e cristianesimo è apparentemente insanabile. Per il cristianesimo, la natura è creatura di Dio e ne porta il segno, ma non è divina; l’atto della creazione pone infatti una distanza infinita e invalicabile tra Dio e la sua opera: la natura, quindi, riceve la sua esistenza da Dio, ma non è né una sua emanazione né una sua “incarnazione”. Partendo dalla contemplazione della natura, l’uomo può salire a Dio, ma Dio non è nella natura, la trascende infinitamente. La natura va dunque rispettata come opera di Dio donata all’uomo, ma non può essere assolutizzata, come se fosse qualcosa di “divino”.

È l’uomo che si fa “voce” della creazione, che, per mezzo di lui, dunque, raggiunge il suo fine. È in questo farsi “voce” della creazione che l’homo sapiens raggiunge il punto più alto del suo essere: egli è sì homo faber, e quindi uomo del lavoro e del “progresso” della tecnica come strumento per dominare la terra, ma è anche homo contemplativus, e quindi uomo che, contemplando Dio nella sua creazione, lo glorifica. È esemplare, a questo proposito, l’esperienza spirituale di San Francesco d’Assisi o di Ildegarda da Blingen.
Su tale modello di partecipazione cosmogonia del naturale c’è una oggettiva condivisione dei “valori”, che l’ecologismo porta avanti: rispetto della natura e rifiuto del suo sfruttamento utilitaristico, prevalenza della qualità della vita sulla quantità dei beni di consumo, e quindi condanna dell’edonismo consumistico. L’uomo, infatti, se è immagine di Dio nel suo essere, deve esserlo anche nel suo agire; perciò non ha, né può avere, sulla natura un potere dispotico e distruttivo fino a danneggiare e distruggere l’esistente, senza andare contro il disegno di Dio.

Data la condizione di secolarizzazione e di progressivo disincanto nichilistico della cultura occidentale, la tematica ecologica pone quindi un problema di grande profondità alla coscienza del cristiano.

Domanda - In che modo educare la gente a non desiderare ciò che potrebbe ottenere? 
In circa trent’anni i principi dell’ecologia profonda hanno avuto una eco limitata, se paragonati a quelli diffusi dal rapporto Brundtland sullo "sviluppo durevole" che risale invece agli anni ’80. Perché, secondo Lei, ancora non si è riusciti a dimostrare la bontà di un approccio ecologico che passi prima di tutto attraverso un profondo metodo di analisi delle cause della crisi ambientale?

Il Rapporto Brundtland (1987) ha espresso la più accreditata vulgata del concetto di sviluppo sostenibile "che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni". Risulta chiara la matrice antropocentrica ed utilitaristica, che alimenta la maggioranza della cultura politica ambientalista occidentale. Tutti i modelli economici prospettati nella modernità, infatti, si proiettano spazialmente sulla base di un tempo meccanico, negando faustianamente la non-reversibilità entropica della trasformazione della energia e della materia.

Questo “riformismo” ambientalista ha ottenuto maggior credito principalmente perché funzionale al modello di sviluppo industriale liberal-capitalistico: ha, cioè, avuto canali mediatici e di rappresentatività politica compiacente e trasversale tra tutti i partiti politici e i gruppi di potere economici. L’affermazione filantropica sulla solidarietà intergenerazionale non intacca la pervicacia dell’economicismo e si perpetua in una professione d’intenti divenuta un luogo comune rassicurante, tanto che i partiti marcatamente ecologisti hanno oggi evidenti problemi di identità, di ruolo e di consenso politico: hanno aderenti provenienti da esperienze ideologiche eterogenee, accomunati da un indistinto progressismo individualistico e urbano, che inferisce sulla ingenuità di un promiscuo mondo di militanza associazionistica, ambientalista e protezionista.

Su tali basi, l’ecologismo ha smarrito il profilo ideologico, che poteva costituire una vera novità nel campo delle estenuate idee della tarda modernità: dimostrarsi ulteriore alla destra e alla sinistra, essendo intimamente conservatore e insieme rivoluzionario. L’olismo si pone infatti in termini di grande mutamento paradigmatico del modello occidentale, riferendosi però non ad utopie prometeiche, ma alla stabilità dei sistemi naturali e ai valori della Terra, al senso del limite.

Le conseguenze di tale “tradimento” teorico si riflettono nell’incapacità, socialmente, di radicarsi e di proiettare un’immagine di reale alternativa al modello dominante e, politicamente, di dimostrarsi veicolo di reale conflitto con gli equilibri di potere, di interpretare una concreta frattura amico/nemico in cui identificarsi.
Non è un caso che il personale politico verde sia di una evanescenza trasformista e di un opportunismo personale pari, se non superiore, al carrierismo di ogni partito istituzionalizzato. Diventa difficile, pertanto, pensare che l’attuale scenario politico culturale consenta di dare spazio a tematiche di grande respiro ideale e di mobilitazione esistenziale. L’acquiescenza ai rapporti di forza della democrazia rappresentativa non fa emergere nemmeno l’irriverenza populistica di una figura dai tratti contraddittori come Ralph Nader, che oltre oceano manifesta comunque una significativa indipendenza dagli schieramenti condizionanti di destra e sinistra, dando espressione ad una potenziale maggioranza alternativa.

Possiamo quindi dire che il problema politico ecologico, più che specifico, è generale e riguarda la depoliticizzazione delle “società aperte” liberali. La libertà negativa, che sottrae la persona alla cosa pubblica, confondendosi con l’emancipazione degli scambi economici da ogni vincolo, ha come destino la mercificazione universale di uomini, idee e cose. Solo se, e quando, il “politico” interpreterà forme originali di partecipazione pubblica, potremo assistere a una riconciliazione tra idee e pratica sociale, ad uno “stato nascente” rivoluzionario, che possa tenere conto dei principi ecologici. Sarà cioè possibile un coinvolgimento generalizzato di un pensiero minoritario, che all’oggi può cercare agibilità in termini preferenzialmente metapolitici, influenzando l’immaginario collettivo, grazie all’onestà intellettuale e alla coerenza etica.

Giuseppe Serra

Fonte: www.estovest.net
ottobre 2004

domenica 26 novembre 2017

Osservare il mondo senza pregiudizio...


Il nostro osservare il mondo, sia interiore (delle emozioni) che esteriore (degli oggetti), non è quasi mai “pulito”, privo cioè di interpretazione e concettualizzazione.
Siamo avvezzi a giudicare quel che osserviamo attraverso il filtro della memoria e delle sensazioni collegate alle trascorse esperienze. Anche nel caso di eventi “nuovi” o di idee precedentemente non considerate non facciamo a meno di cercare di “comprendere” e misurare sulla base del nostro conosciuto. Ecco questa “preconoscenza” è la nostra “schiavitù” ma se potessimo lasciarci andare sino al punto di poterci osservare mentre si innesca il meccanismo del “pre-giudizio” e capire il suo funzionamento… potremmo già considerare questa “attenzione” come una prima forma di meditazione e distacco dal processo appropriativo in corso.
Facciamo un’analogia pratica, per esemplificare questo tentativo di spostare l’attenzione dall’io giudicante alla capacità testimoniale della pura coscienza, analizzando il funzionamento del sogno. Quando sogniamo tutto avviene in modo apparentemente costruito e definito mentre allo stesso tempo gli avvenimenti del sogno mantengono il senso dell’imponderabilità.
Il personaggio specifico del nostro sogno, nel quale noi ci identifichiamo, è esso stesso una semplice componente inscindibile dalla complessità del sogno, in cui i vari attori, figure, oggetti ed eventi sono un tutt’uno. La “farsa” del sogno mostra un’apparente finalità e significato agli occhi del personaggio di sogno nel quale ci identifichiamo. Vediamo che egli infatti compie gesti deliberati e verosimili sforzi di volontà per raggiungere i suoi fini di sogno, rapportandosi inoltre con gli altri personaggi del sogno come “diversi” da sé.
Può ciò corrispondere a verità?
Tutti gli aspetti del sogno sono prodotti dalla stessa mente e non sono in alcun modo controllabili e gestibili da alcun personaggio o situazione del sogno. Essendo ognuno di questi elementi semplici componenti “passive” immaginate nella mente del sognatore. Dal punto di vista dell’esperienza “empirica” nello stato di veglia si può dire che il processo di “creazione” sia praticamente il medesimo. Tutti gli oggetti ed i soggetti che reciprocamente si percepiscono (essendo ognuno contemporaneamente soggetto ed oggetto nella percezione altrui) scaturiscono dalla stessa “Mente”, o Coscienza, e si dipanano sullo schermo concettuale degli eventi spazio-temporali. In effetti, in questo funzionamento totale, non può esistere alcuna volizione o finalità personale, poiché (come nel sogno) ogni cosa si svolge indipendentemente dall’intenzione di qualsiasi dei personaggi sognati. Pur che apparentemente essi assumono su di sé il senso dell’affermazione o della negazione di una loro “volontà”, ma questo avviene solo conseguentemente alla considerazione effettiva degli eventi già vissuti. Ovvero dopo aver “giudicato” i fatti accaduti ed averli assunti come propri (attraverso il senso di identificazione) e quindi definiti come positivi o negativi (ai fini del personaggio).
Da ciò, per estensione, arriviamo all’identità dello stato di veglia e scopriamo che -come nel sogno- a manifestare la vita e le sue componenti non sono i singoli esseri bensì la Coscienza stessa, impegnata com’è nell’opera di vivificazione delle sue emanazioni e manifestazioni, che sono possibili solo per suo tramite.
Per questa ragione è detto che “quando il me scompare l’Io si manifesta” (Ramakrishna Paramahansa), ovvero quando l’identificazione individuale cessa automaticamente la Coscienza impersonale emerge. Si dice che “emerge” in quanto tale pura Coscienza è già insita nell’individuo stesso (come la mente è presente nel personaggio sognato) che la “sostanza” non appartiene alla sembianza mutevole ma è l’essenza che la anima. Ovviamente in caso di “risveglio” al puro Io il senso di identità individuale “muore” ma questo non implica l’automatica scomparsa della sua “sembianza” apparente, che continuerà a restare nella percezione degli “altri” osservatori, ma svuotata al suo interno di ogni identificazione oggettiva, essendo il risvegliato pura e semplice “soggettività” (Consapevolezza priva di attributi).
La spontaneità è la caratteristica “comportamentale” del risvegliato, quando spontaneità significa semplice capacità di risposta, adeguata e consona, alle situazioni in cui egli si imbatte. In un tale essere non permane alcuna ombra di intenzionalità o di giudizio, di desiderio o repulsione, la sua “volontà” corrisponde esattamente agli eventi vissuti senza che lui lo ricerchi. Possiamo definire questo stato: Libertà.
Per significare la vera natura dell’essere ed il “ritorno” all’intrinseca consapevolezza che gli è propria, ammettendo che tale natura è la stessa per ognuno di noi, mi piace riportare una frase di Nisargadatta Maharaj, che disse: “Non importa ciò che fai o ciò che non fai se hai realmente percepito quello di cui sto parlando. Diversamente, non importa nemmeno se tu non hai capito quel di cui sto parlando..” Il che significa che in entrambi i casi la realtà intrinseca non cambia… e quel che è destinato ad avvenire avviene per conto suo….
Succede però che questo discorso, pur essendo a volte intellettualmente accettato, necessiti spesso una digestione ed assimilazione, deve insomma essere fatto “nostro”. Ciò può avvenire attraverso la riflessione, la rielaborazione e il riconoscimento al nostro interno di tale verità. Ora in qualche modo ci sembra di aver compreso ma dobbiamo disintossicarci dalla tendenza speculativa e dall’identificazione con il personaggio incarnato. A tal fine, non per ottenere la condizione che è già nella nostra natura ma allo scopo di scongiurare l’imbroglio della mente, consiglio la lettura ripetuta e la ponderazione sulle immagini contenute nel Libro dei Mutamenti, un compendio di esempi archetipali psicosomatici, descrivente cioè i diversi modelli comportamentali, basati sulle variegate capacità espressive della mente nello svolgimento degli eventi spazio-temporali. 
Per mezzo dell’analisi sarà possibile riconoscere le multicolori forme che la mente può assumere in questo mondo di apparenze, essendo le sue trasformazioni semplici risultanze, risonanze e adattamenti alle condizioni che si trova ad affrontare. Questa è una risposta automatica allo svolgimento delle continue mutazioni e mescolamenti degli elementi basilari della vita.
Ovvio che tali mutazioni sono praticamente infinite ma nel Libro dei Mutamenti si esaminano 64 aspetti/madre, in forma di esagrammi in cui ogni linea è una componente costitutiva con propri significati. Essendo questo testo il risultato di un antichissimo e costante studio ed osservazione di fenomeni naturali e sociali, interpretati e visti sia con la ragione che con l’intuizione, esso si presenta come un complesso integrato dei diversi modi espressivi analitici ed analogici della mente.
E nel Libro dei Mutamenti si può dire che vengono fusi sia gli aspetti filosofici speculativi e metafici che quelli analitici ed empirici (Taoismo e Confucianesimo), perciò la prassi è quella di osservarne le immagini senza volerne assumere i concetti, un buon metodo per avvicinarsi alla corrispondente spontaneità comportamentale del saggio, basata sulla capacità di immediata risposta comportamentale nelle varie situazioni incontrate nella vita, anche in considerazione delle peculiari caratteristiche da ognuno incarnate e nella posizione e condizione in cui siamo. Insomma, conoscere il mezzo per affrontare adeguatamente il percorso.
Siccome la lettura del testo non è immediatamente chiara e assimilabile è consigliabile una ripetizione continuata, ma senza sforzi interpretativi, in modo da sospingere pian piano la nostra mente verso quel necessario “distacco” da finalità precostituite, tralasciando quindi il tentativo di comprensione dei significati razionali e lasciando che le immagini evocate trovino corrispondenza nel nostro inconscio.

Paolo D’Arpini


sabato 25 novembre 2017

Stato del pianeta - Mangiamo e beviamo microplastica...


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"Chiare fresche e dolci acque…?" Chissà se oggi il Petrarca potrebbe trovare una simile ispirazione pensando alla sua amata immersa in un mondo di acqua e di plastica! Comunque, poesia a parte, continuiamo il nostro viaggio alla scoperta di questo nuovo tipo di inquinanti: le micro e le nanoplastiche. Sebbene il fenomeno sia stato già adombrato negli anni settanta e confermato da una miriade di nuovi studi, il risultato di una recente ricerca afferma che  anche la nostra acqua potabile è piena di microplastiche. Questa ricerca, che dovrà essere confermata anche da altri lavori, aprirebbe  un quadro preoccupante su questo fenomeno soprattutto perché ancora non è chiaro il meccanismo attraverso cui avverrebbe tale contaminazione.

Cercheremo quindi di esaminare un po' più a fondo questo fenomeno con una serie di articoli, con l’intento di fare chiarezza su questo tipo di inquinamento che potrebbe avere conseguenze drammatiche per noi e l’ambiente in cui viviamo. Anche perché proprio in questi giorni si è arenata al senato una legge, votata in maniera unanime nel 2016, rivolta a limitare l’uso delle microplastiche nei prodotti cosmetici. E questo è un problema che ci tocca da vicino più di quanto pensiamo: l’Italia è leader mondiale nella produzione di tali prodotti.

Comunemente il termine “microplastiche” viene usato per descrivere particelle di plastica, come polietilene, polipropilene ed altri polimeri, con dimensioni più piccole di 5 mm di diametro, definizione che però include particelle piccole fino a 1 nanometro: si tratta di una differenza di ben 6 ordini di grandezza, oggetti grandi un milione di volte di più uno rispetto all’altro. E’ come se volessimo studiare con gli stessi strumenti le caratteristiche di un virus e quelle di una formica: sono forme di vita enormemente diverse! Proprio questa estrema variabilità nella definizione delle  dimensioni è fonte di molti problemi. Non c’è ancora una classificazione standard della scala delle grandezze condivisa a livello internazionale e in questo modo tutti studiano cose diverse tra loro. Senza fare una restrizione in un campo ben preciso di grandezze è difficile fare uno studio omogeneo e comparativo del problema anche perché le tecniche di rilevazione e campionamento delle microplastiche e delle nano plastiche sono molto differenti. Già con le tecniche attuali è difficile definire e studiare particelle con dimensioni di circa 5 micron, figuriamoci quelle di 5 nm, che sono mille volte più piccole: esse, in questo modo, vengono semplicemente perse nello studio.

Cerchiamo adesso di analizzare brevemente quale è la fonte di questi inquinanti e come vengono diffusi nell’ambiente, il che è essenziale per trovare le giuste soluzioni per limitare questo problema.

Alcune microplastiche vengono intenzionalmente prodotte con queste dimensioni: per particolari usi industriali, nei prodotti per la pulizia della casa, nei cosmetici (ne sono pieni saponi, creme esfolianti, gel dentifrici e altri cosmetici). Queste vengono dette microplastiche primarie. Tali microplastiche attraverso le fognature passano nei sistemi di depurazione tradizionali che non riescono a trattenerle e così vanno direttamente nei fiumi e nei mari. Di ciò parleremo un'altra volta perché vedremo come sono proprio le nostre case una fonte di inquinamento non trascurabile.

La maggior parte delle microplastiche tuttavia sono dovute alla frammentazione di oggetti plastici di dimensioni maggiore e sono definite microplastiche secondarie. Questa è la fine che subiranno tutti i pezzi e i sacchetti di plastica, le bottiglie, i filtri di sigarette ecc che vediamo abbandonati nell’ambiente. Infatti, prima o poi, attraverso i corsi d’acqua giungeranno in mare sulle nostre spiagge dove, per colmo della sfortuna, l’azione concomitante degli UV dei raggi solari con l’abrasione meccanica di sabbia e onde rende più effettiva la produzione di microplastiche che in tal modo vengono veicolate subito nell’ambiente marino.

Passiamo adesso in rassegna quali possono essere i principali pericoli dell’inquinamento da microplastiche una volta immesse nell’ambiente:

a) persistenza nell’ambiente: la plastica è quasi eterna. Noi, con le nostre tecniche di sintesi, l’abbiamo volutamente creata così indistruttibile. In questo modo una volta dispersa nell’ambiente non viene biodegradata da microorganismi, come funghi o batteri, in elementi più semplici ed innocui con cui si possono alimentare altri organismi. Il risultato di ciò è che la plastica si accumulerà sempre di più nel tempo. Questo potrebbe portare al raggiungimento di una soglia di non ritorno, ossia creare una sorta di tappo che non si riesce a smaltire e che potrebbe bloccare trasferimenti di energia e catene alimentari con conseguenze disastrose per l’ambiente.

b) Effetti fisici e chimici dannosi delle microplastiche

Grazie alla loro longevità, alle dimensioni e alla porosità delle loro superfici queste microplastiche si comportano come dei substrati ideali su cui prosperano batteri ed alghe. Per cui spesso si presentano veramente appetitosi per gli organismi marini che se ne cibano. In questo modo la plastica ingerita procura occlusioni e danni fisici spesso fatali. Oppure sentendosi sazi in qualche modo limitano la dieta e l’apporto giornaliero di cibo, danneggiando nel medio-lungo termine tali organismi che deperiscono pian piano.

Le microplastiche contengono poi molti metalli pesanti e sostanze dannose tra cui gli ftalati, idrocarburi aromatici tra i più tossici, che possono essere trasferiti nell’ambiente. Inoltre a causa della loro natura porosa e idrofobica, alcuni prodotti chimici inquinanti presenti nelle acque, in concentrazioni non pericolose, vengono assorbiti sulla superficie di queste particelle venendo cosi a concentrarsi in modo non trascurabile anche di vari ordini di grandezza. Insomma queste particelle di plastica, nel loro vagabondare, si comportano come spazzini che raccolgono i veleni che trovano in giro e li accumulano sulla loro superficie, veleni che vengono poi rilasciati, una volta ingeriti, dentro gli altri organismi della catena alimentare concentrandosi sempre di più.

c) veicoli e vettori inquinanti: le microplastiche possono viaggiare in tempi e spazi molto ampi grazie alla loro struttura e alla loro longevità. Questo fa sì che possono diffondere agenti inquinanti, batteri ed alghe anche dove normalmente non ce ne sono e non ce ne sono mai stati, come ai poli, turbando l’ecosistema. E’ recente la notizia che microplastiche sono state trovate nello stomaco di organismi che vivono a grandi profondità marine come la Fossa delle Marianne a circa undici chilometri di profondità.

d) Le microplastiche producono nanoplastiche: la frammentazione di microplastiche produce necessariamente nanoplastiche. In questo modo entriamo in un mondo che è quasi del tutto ignoto. Innanzitutto la quantità di nanoplastiche presenti nell’ambiente acquatico e terrestre non è conosciuta perché la maggior parte delle tecniche di indagine escludono queste particelle così piccole. In secondo luogo il comportamento e l’interazione delle nanoparticelle di plastica con gli organismi viventi è molto differente rispetto alle microplastiche. Infine anche la propagazione nell’ambiente è molto diversa, a causa della loro dimensione piccolissima. E anche in questo caso pochi studi sono stati fatti.


Studio e articolo del prof. Giorgio Giannini (Fisico)

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(Fonte A.K. Informa n. 46)

venerdì 24 novembre 2017

Ecologia, localismo e "bioregionalismo"


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Tra gli aspetti più contraddittori del movimento contrario alla globalizzazione che si è sviluppato nel nostro paese, vi è la spiccata ideologizzazione internazionalista e cosmopolita che pretende di ottenere i “frutti civili” della uniformizzazione planetaria, contrastando il sistema economico che li genera. In realtà, l’allargamento dei diritti e la condivisione universale e sociale della giustizia e della conoscenza sono obiettivi condivisi, se pur in modalità riformista, dall’ideologia liberista che conduce lo sviluppo del mercato unico globale. Palese risulta il gioco delle parti, la dialettica destra/sinistra, che anima la meccanica progressista della società industriale.

Da questo punto di vista è emblematico il disinteresse per la parte più viva del pensiero ecologista internazionale che, nella persona di Edward Goldsmith (1) ha un elemento determinante in Europa, mentre addirittura nel Nord e Centro America, col movimento bioregionalista (2), si è ben più attenti allo stretto legame, che interagisce tra l’amore per la propria terra e la coscienza fattiva dei guasti causati dalla società dei consumi. Proprio negli Stati Uniti, dove più evidenti e futuribili sono le contraddizioni del modello di sviluppo occidentale, un nutrito gruppo di ecologisti dai nomi misconosciuti in Europa come Wendel Berry, Gary Snyder, Kirkpatrick Sale (3), sono iscrivibili nell’ambito del movimento bioregionalista.

La parola stessa  "bioregione" è da noi presso che  sconosciuta, citata da qualche avvertito articolista in ambiti minoritari, dove comunque non ha trovato spazio adeguato né come concettualizzazione, né – il che è più grave – come prassi. Questo, sebbene anche da noi il movimento del ritorno alla terra, magari non strutturato, sia piuttosto pronunciato, unito a svariate iniziative produttive e commerciali legate al biologico, e quindi alla “riduzione di scala”, sempre più radicate e credibili. Pensiamo alla estrema difficoltà che le multinazionali dei prodotti alimentari transgenici stanno incontrando nella diffusione dei loro prodotti nel paese.

Ora, se c’è qualcosa che crediamo sia difficile contestare da un punto di vista ecologista, è la necessità di un totale mutamento, di un cambiamento radicale nelle abitudini di vita degli abitanti del mondo supersviluppato, nonché dei rapporti fra questo e il resto della popolazione del Pianeta, che del supersviluppo paga quotidianamente le conseguenze.

Questa necessità si manifesta con grande evidenza proprio nel momento storico in cui le ideologie e le “visioni del mondo” alternative denunciano i loro limiti e fallimenti. Ma c’è di più. La necessità di un mutamento radicale è legata anche all’atrofizzarsi dell’ecologismo, sempre più divaricato fra la reale consapevolezza e le idee mutuate dai comportamenti di vasti settori della nostra società. Il fatto è che, senza un punto di riferimento ideale, che serva da matrice per le scelte di vita personali e, quindi, politiche, le varie ricette filantropiche per la salvezza del Pianeta, il “nuovo modello di sviluppo”, la compatibilità ambientale e tutto il bagaglio del riformismo verde non sono in grado di colmare questa distanza.

È sicuramente vero che l’ecologia, nella sua sfumatura “naturistica”, è diventata “di moda”, ma ci auguriamo si avverta tutto il desolante significato di questa affermazione. Se l’ecologismo è di moda, ciò significa che è stata metabolizzata dalla società dei consumi, che il rispetto per l’ambiente è divenuto un luogo comune della banalizzazione mediatica, con il deprecabile doppio risultato di agire superficialmente e di porsi, inevitabilmente, al servizio di chi indirizza mentalità e comportamenti collettivi.

Ora, chi gestisce il potere, reale o virtuale che sia, non ha alcun interesse a proteggere la natura di tutti, a meno che questo comportamento non corrisponda ad esigenze di mantenimento del potere stesso. Non ne ha interesse reale, perché la funzione di potere è intrinsecamente anti-ecologica, essendo la natura un organismo che tende all’omeostasi (4) e si autoregola attraverso una serie di interdipendenze relazionali e la compartecipazione delle specie a tutto il processo vitale.

Il potere, al contrario, irrigidisce gerarchicamente i rapporti - oggi in forme tecnocratiche - ed ha come logica tutta moderna l’applicazione di astratte leggi economiche quali vere “leggi di natura”, determinando la mercificazione dell’esistenza. Lo sfruttamento ne è, dunque, elemento sostanziale: sulle persone, i popoli, la natura.

Se l’ecologia è di “moda”, cessa di essere conflittuale con lo status quo, perdendo quella capacità unica di rottura e critica alle cause stesse della civilizzazione industrialista e tecnomorfa. All’oggi, ad esempio, il compostaggio dei rifiuti, il loro riciclaggio o le bonifiche, sono regolati da logiche profittevoli identiche a quelle che generano inquinamento e corruzione. Per assurdo, al deteriorarsi delle condizioni di sopravvivenza relativamente allo scarseggiare di materie prime e altre implicazioni dovute al titanismo industriale, potrebbe  affermarsi una sorta di ecologia di Stato – o di super Stato mondiale – destinata a fronteggiare le emergenze ambientali con una politica di restringimento delle libertà, personali e comunitarie. È la logica secolare dell’affermazione degli Stati nazionali e dei loro mercati sui Popoli e le culture. È la logica progressista che reprime gli effetti incapace di rimuovere le cause che detronizzerebbero la sua egemonia culturale e politica.

Già si hanno piccoli riscontri di questa tendenza nella contrapposizione fra le amministrazioni e le popolazioni locali per la realizzazione di discariche e inceneritori. La gente ovviamente non li vuole vicino casa ma vive in modo da renderli indispensabili… Il potere pubblico è ovviamente pronto a imporli con la forza, o comunque senza consenso, e dunque senza partecipazione, essenza della democrazia.

Nel bioregionalismo troviamo stimoli per una risposta coerente a tutto questo.

Se gli Stati Uniti sono l’avanguardia mondiale della dilapidazione naturale e dello stile di vita consumista che gli è proprio, solo sotto due aspetti hanno favorito condizioni vantaggiose per il bioregionalismo. La spontanea tendenza – peraltro non dominante – al decentramento ed alle autonomie locali (l’aspetto che impressiono positivamente Alexis de Tocqueville nel suo Viaggio in America), e il riferimento alle culture indigene, native.

Ma il continente europeo non è sicuramente da meno in fatto di riferimenti al localismo. La tradizione autonomistica, regionalistica in senso lato, è molto radicata. Ci sembra perciò che il bioregionalismo sia al cento per cento prodotto da esportazione. Ovviamente, però, non a “scatola chiusa”: le differenze storiche, culturali e sociali tra l’Europa e gli Stati Uniti sono tali da rendere impraticabile una equiparazione. Ma una simile precisazione è tautologica, visto che parliamo di una visione del mondo che nasce “aperta”, e contraddirebbe la propria essenza se pretendesse di fornire indicazioni assolute, ideologiche, universalmente valide.

Un riferimento certo è che la prospettiva bioregionalista vede nello Stato-nazione un’istituzione storicamente recente e, contemporaneamente datata, che si è imposto dopo una spietata lotta contro le autonomie locali, trasformando l’abitante da agente attivo e partecipante alle decisioni politiche – qual era nel contesto comunitario – a recettore passivo di beni a servizi in cambio della sua  anonima “cittadinanza”.

In controtendenza, il bioregionalismo propone una ristrutturazione complessiva dell’organizzazione territoriale, per il bene non solo degli esseri umani, ma di tutta la biosfera, ridiscutendo gli arbitrari confini statuali della tarda modernità, a partire dal principio di autodeterminazione, esprimendo autonomie ed interconnessioni naturali sulla base delle identità culturali. Dalla più semplice – la comunità locale – alla più complessa – il pianeta terra: la miticaGaia.

Non è difficile immaginare l’alternativa al pericolo in cui il modello industriale-scientifico ci ha posto: si tratta semplicemente di tornare ad essere abitanti della terra. Dobbiamo recuperare lo spirito che caratterizzo il “senso del limite” degli antichi Greci, considerando nuovamente la Terra come una creatura vivente. Vi è un modo sacrale di confrontarsi con essa e con le sue creature, un modo che implica rispetto e ammirazione, un respiro comune che inibisca l’abuso e la relativa obsolescenza.

La parola bioregione si compone semanticamente di bio, la parola greca che significa vita e “regione” che deriva dal latino regere, cioè governare. La vita che si autogoverna nel limite biotico di un territorio. Un territorio abitato, un luogo definito dalle forme di vita che vi si svolgono, piuttosto che da decreti legge; una regione governata dalla natura.

Tutto ciò è credibile solo coltivando una rinata sensibilità per la specificità dei luoghi e delle culture, una lealtà politica verso il territorio in cui viviamo, unite a pratiche economiche e sociali indigeste al sistema mondo capitalista. Vorrà dire un’economia radicata nella particolarità del territorio e delle sue tradizioni, espressa dalla sensibilità delle comunità locali.

La pluralità delle identità comunitarie evita i rischi di accentramento del potere e quindi di colonialismo o imperialismo. La complementarietà e lo sviluppo di una fitta rete di relazioni intercomunitarie – tra cui la sussidiarietà e l’interdipendenza – possono definire con sufficiente approssimazione l’intento di un “federalismo ecologista”, di assoluta attualità dato il destino tecnocratico dell’unità europea..

Il problema di fondo è di ripensare pluralisticamente il mondo fuori dall’Occidente, dal suo universalismo monistico e dalla sua centralità etnocentrica rispetto alla quale tutto diventa periferia. Bisogna comprendere, per dirla con Mircea Eliade, che “in ogni posto c’è un centro del mondo” possibile (5). E quel “centro del mondo” è, per ogni uomo, la sua identità personale e comunitaria, il suo specifico territorio umano, naturale e culturale, supportato dalla biodiversità. Saranno la reciprocità economica, il paritario scambio culturale, il viaggio e l’ospitalità a tessere, come capi opposti di un unico filo, le trame di una convivenza qualitativa tra le diversità, appagando la necessità profonda, per noi moderni, di ritrovare nel contatto e nel confronto con l’altro da sé, la radice della nostra cultura, la risposta al disagio esistenziale indotto dalla civilizzazione di massa: una risposta alla insopprimibile ansia di radicamento.

di Eduardo Zarelli 


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Note

1.      Goldsmith, Il Tao dell’ecologia, Padova, 1997; Goldsmith, La grande inversione, Padova, 1992

2.      Per la riduzione di scala ecologica e il bioregionalismo vedi, Schumacher, Piccolo è bello, Milano, 1996; Sale, Le regioni della natura, Milano, 1993; AA.VV, Il territorio dell’abitare, Milano, 1996; Goldsmith e Mander, Glocalismo, Casalecchio (Bo), 1998. AA.VV., Verso casa, Casalecchio (Bo), 1998.

3.      Di questi autori vedi: Berry, Con i piedi per terra, Como, 1997; Snyder, Nel mondo selvaggio, Como, 1992; Sale, Ribelli al futuro, Casalecchio (Bo), 1999.

4.      Sull’omeostasi vedi Bunyard e Goldsmith, L’ipotesi Gaia, Como, 1992.

Mircea Eliade, La prova del labirinto, Milano, 1990.

giovedì 23 novembre 2017

Dove rifugiarsi in caso di III Guerra Mondale? Risponderei citando Totò: “ma mi faccia il piacere!”

E’ proprio vero che in Internet spesso ci si improvvisa esperti in qualche settore senza alcuna competenza, il problema è che nonostante l’enorme frammentazione e dispersione di contenuti, qualcuno ha successo, proprio come in tv, pressappoco con gli stessi meriti.
E non mi riferisco ai video o siti di gossip, porno, giochi, ecc., che si sa essere le direzioni primarie e prioritarie cui si rivolge la maggioranza degli italiani che navigano in rete, i quali a loro volta non costituiscono la maggioranza della popolazione, perché nonostante le statistiche istituzionali affermino che ormai oltre il 70% navighi in rete, oltre la metà degli italiani non naviga in internet (così come un avventore che si reca in un ristorante una volta all’anno non è un cliente abituale), ed oltre un terzo non si accosta neppure per curiosità, anzi ne ha avversione.
Quindi di quali percentuali stiamo parlando? Non si sa! Studi accurati in proposito non ce ne sono, almeno a me non risultano, oppure sono datati, non aggiornati.
Per non disperdermi anch’io nelle mie argomentazioni torno a capofitto nella premessa di partenza, sperando di avervi fatto capire che comunque mi riferisco a esigue minoranze di italiani che navigano alla ricerca di informazioni e non per cazzeggiare. Ecco, questa esigua minoranza, forse meno del 5% per cento della popolazione (a voler essere ottimisti), che ricorre alla rete per informarsi e documentarsi e non solo per cercare una meta e prenotare una vacanza o ascoltare musica e vedere film, si trova con il gravoso problema di selezionare qualche contributo qualitativamente accettabile in una miriade di proposte più o meno raffazzonate, scopiazzate e prive di qualsiasi criterio produttivo razionale e serio, rispettoso di un minimo di approccio metodologico, analitico, articolato e dotato di senso. Per cui diventa inevitabile incappare ogni tanto in video o testi che lasciano basiti per la loro superficialità ed approssimazione. Fin qui è tutto ovvio, fa parte del gioco, tutti possono intervenire, produrre, esporre, ecc., disponendo di questo strumento abbastanza semplice che è la rete ed i social network per condividere, quello che lascia perplessi ed a volte basiti è il successo che a volte ottengono, almeno in apparenza, certi “prodotti” individuali, e non mi riferisco ai video con contenuti provocatoriamente erotici o di gossip o con performance di rutti e flatulenze, che si sa che a volte superano anche il milione di visitatori e visualizzazioni, il che è tutto dire e non richiede alcun commento, ma a video (i testi sono più rari, perché sono più impegnativi, occorre saper scrivere …) apparentemente di argomento molto serio ma trattati con una “leggerezza” da rimanere basiti.
Per fare un esempio pertinente, giorni fa mi sono imbattuto in un video che affrontava l’argomento di quali sarebbero i 10 paesi al mondo dove ci si potrebbe rifugiare nel caso scoppiasse la III guerra mondiale.
Il Video durava circa 5 minuti, quindi ogni paese veniva presentato in meno di 30 secondi. Indubbiamente l’autore era una persona intelligente, perché i 10 paesi erano scelti con un criterio assennato, ma non certamente analitico e comparativo, temo la scelta fosse esclusivamente geografico deduttiva. Probabilmente l’autore era fresco di studi, appassionato di geografia, ha raccolto pochi dati da qualche atlante e/o enciclopedia ed ha prodotto il video. Scommetterei che si tratta di un adolescente intraprendente, che pur nella sua superficialità informativa (nonostante la delicatezza ed estrema importanza dell’argomento affrontato) in pochi giorni aveva avuto quasi 40 mila visualizzazioni. Evidentemente ha saputo sfruttare un tema che “tira”, e lo ha fatto con gli strumenti culturali di cui disponeva, cioè pochi, insufficienti, inadeguati alla responsabilità assunta.
La mia intenzione non è giudicare e condannare, anzi, l’adolescente ha fatto bene a destreggiarsi, col tempo forse migliorerà e fornirà prodotti più impegnativi. Quello che voglio rilevare è che ci sono fior di blogger che producono anche video, con tutti i crismi della competenza, mettendoci anche settimane per comporne uno, e che 40 mila visualizzazioni per loro sono un sogno. Quindi se è vero che internet è un ottimo mezzo di informazione cui attingere in alternativa ai mass media mistificatori e disinformativi, è anche vero che in esso non vige certo la meritocrazia, esattamente come nella realtà di tutti i giorni, conta molto anche la cosiddetta fortuna e l’opportunismo, saper cogliere il momento propizio per proporre un argomento che tira, anche se sull’argomento si ha ben poco da dire.
Del resto temo che non ci si soffermi abbastanza su un aspetto essenziale che è una condicio sine qua non per produrre video o testi dotati di “valore aggiunto”: l’esperienza e la conoscenza. Cioè quel minimo di consapevolezza che si acquisisce solo dopo parecchi anni di dedizione, cioè di letture, studio, analisi, valutazioni, presa di coscienza, autocritica, correzioni, ecc., che occorrono per pervenire ad essere in grado, con un’adeguata dotazione di strumenti culturali acquisiti nel tempo, di produrre contenuti degni di questo nome. Altrimenti il rischio è di cazzeggiare, e non ci sarebbe nulla di male nel farlo, per intrattenimento ed a volte per sbaglio, lo facciamo tutti, l’importante è non farlo abitualmente convinti invece di proporre contenuti validi.
In quanto all’argomento pretestuoso di dove rifugiarsi nel caso scoppiasse un terzo conflitto mondiale, che tira parecchio come interesse, è già compromesso nelle sue stesse premesse, per ovvi motivi, anche statistico demografici, nel senso che se anche si pervenisse ad individuare dei luoghi dove le ripercussioni potrebbero essere inferiori, in ogni caso chi già si trova in quei luoghi si troverebbe di fronte al problema di concedere o meno ospitalità e a quanti? Dopo di ché sarebbe costretto a difendere i propri spazi vitali … Quindi l’ipotesi rimarrebbe inevitabilmente solo teorica, virtuale, astratta, tanto per far sfoggio di qualche sommaria conoscenza geografica, come indicare la Groenlandia come macroregione nella quale rifugiarsi (uno dei 10 paesi citati superficialmente nel video nei quali rifugiarsi). Peccato che il clima non sia ancora l’ideale e che ci sarebbero problemi per gli approvvigionamenti, e non oso pensare quanto verrebbero a costare (mai sentito parlare di mercato nero in tempo di guerra?). Inoltre per insediarsi in un numero consistente, come si dovrebbe presumere, dove rimediare i prefabbricati necessari, ed ad alta coibentazione? Per intenderci, a meno che di riuscire miracolosamente ad insediarsi tutti quanti nella costa ovest e sud ovest (dal clima più mite), nel resto della massa continentale occorrerebbero prefabbricati come quelli utilizzati nelle stazioni scientifiche in Antartide o in Artide, leggermente costosi e non facilmente reperibili. Senza contare i problemi connessi alla logistica ed all’amministrazione delle comunità insediate. Con le inevitabili conflittualità che insorgerebbero …
Quindi sarebbe meglio evitare di affrontare argomenti così importanti con tanta leggerezza, come fosse un compitino assegnato a scuola.
Chi opera in rete non dovrebbe porsi tanto il problema dell’audience (imitando culturalmente la tv da cui tutti proveniamo e si spera essersi allontanati definitivamente), quanto della qualità del messaggio che si intende trasmettere, ed intervenire quindi se si ritiene di avere veramente qualcosa da aggiungere (purché sia pertinente) a quanto già reperibile, oppure qualcosa che differisca dall’esistente e che nessun altro ha ancora riferito. Altrimenti si riproduce esattamente (ed è quanto in effetti avviene) lo stesso fenomeno Ego-maniacale tipicamente italico del settore editoriale, in cui in troppi si improvvisano scrittori ed autori, intervenendo su argomenti sui quali già moltissimi si sono esercitati in precedenza, senza aver fatto neppure la fatica di averli prima letti o anche soltanto considerati. Anziché volersi distinguere a tutti i costi, prima occorrerebbe saper discernere …
Claudio Martinotti Doria – claudio@gc-colibri.com

mercoledì 22 novembre 2017

Bioregionalismo terra terra ... partendo dall'agricoltura ecologica


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Per la difesa della salute e dell'economia sarebbe necessario puntare sull'agricoltura ecologica. Tale metodo di produzione potrebbe essere sostenuto anche dai Pagamenti Agroambientali Europei salvando la spesa nazionale… per le Malattie Degenerative. Ma i PSR Regionali ancora oggi sovvenzionano l’acquisto di Pesticidi, chiamandola Agricoltura Integrata (nella Chimica, ndr). Pesticidi di cui l’Italia è il primo consumatore UE, con oltre il 35% di tutto il fatturato comunitario! (Fonte Agernova)

Ciò avviene in spregio al fatto che da recenti studi scientifici è appurato che l'uso dei pesticidi influisce sull'intelligenza umana, oltre che sulla salute. Ad esempio se le mamme sono state esposte ai pesticidi usati sulle colture alimentari durante la gravidanza, i loro bambini avranno un quoziente intellettivo più basso rispetto ai figli di donne non esposte a queste sostanze. Lo rivela uno studio effettuato dall’Università di Berkey, in California, confermato da altri due studi condotti dal Mount Sinai Medical Center e dalla Columbia University. Gli scienziati hanno osservato gli stessi identici risultati: ad un aumento di 10 volte del tasso di organofosfati rilevato durante la gravidanza corrispondeva ad un calo di 5,5 punti nel quoziente intellettivo (Qi) di bambini intorno ai 7 anni. I ricercatori californiani hanno valutato l’esposizione ai pesticidi attraverso la misurazione dei metaboliti nelle urine e poi hanno fatto test per il Qi su 329 bambini. Con i pesticidi forse la mela non prende il verme... ma il bambino si baca il cervello. (Fonte AAM Terra Nuova)

Altro sistema di recupero economico per lo sviluppo dell'agricoltura ecologica sta nel risparmio sulle quote che l'Italia deve pagare come nazione industriale inquinatrice. Ogni giorno l’Italia accumula un debito per l’inquinamento dai gas serra prodotti nello svolgimento delle attività antropiche nazionali. Come sapete c’è una valutazione mondiale in termini anche economici, che varia in base alla produzione di “gas serra” e l’Italia a ritmo normale industriale, riferito a qualche anno fa, paga 3.800.000 euro circa il giorno. L’Italia ha una superficie coperta a boschi pari al 37% della totale ma questo polmone ci è riconosciuto intorno al 10%, pare per il cattivo stato dei boschi. Iniziative per l’efficientamento dei boschi o l’impiego di coltivazioni che bonificano l’aria, riducono nel tempo l’inquinamento, azzerano il debito e sono, di fatto, interventi già finanziati, non dovendo dirottare fondi Italiani verso la CE, oltre a fare un servizio per l’intera umanità. (Fonte Vetiver Lazio)

Inoltre lo sviluppo dell'agricoltura biologica porterebbe inevitabilmente all'incremento delle diete vegetariane che recenti studi scientifici dimostrane essere le più salutari. La tabella ufficiale LARN parla di assunzione giornaliera di nutrienti per la popolazione italiana; alla colonna relativa al quantitativo proteico nelle diverse fasi della vita di un individuo, considerate le diverse categorie di persone, il peso e l’età, effettuata una sommatoria del quantitativo proteico consigliato, la media risulta essere di otre 50 grammi di proteine al dì. Ora, se si considera che il bambino raddoppia in 6 mesi il peso corporeo e attua il massimo sviluppo del cervello con un quantitativo proteico di circa l’1% del latte materno, quantitativi proteici superiori espongono il bambino ad ipertrofia renale, acidificazione del pH, ipertensione, obesità, diabete ecc. E’ di questi giorni la pubblicazione di uno studio condotto dal Dr. Leonardo Pinelli su cento ragazzi che hanno seguito il regime dietetico vegetariano: i risultati confermano l’ottima salute dei bambini vegetariani: si ammalano meno dei bambini onnivori e hanno difese immunitarie migliori. (Fonte AVA) 

Per lo sviluppo dell'agricoltura contadina (vedi: 
http://www.agricolturacontadina.org/ed a favore di una dieta più equilibrata, la Rete Bioregionale Italiana, unitamente ad altre associazioni, ha presentato una proposta di legge che gioverebbe anche alla rivitalizzazione di zone rurali oggi abbandonate, come i terreni pedemontani, che molto si prestano ad un sistema misto agricolo-pastorale. Tale rivitalizzazione garantirebbe la sovranità alimentare del paese. Infatti è noto (fonte FAO) che in tutti i sistemi agricoli mondiali, con l’aumentare delle superfici medie delle aziende agricole diminuisce notevolmente la produttività per ettaro di terreno, dal momento che l’industrializzazione non rende possibili le consociazioni colturali e i corretti avvicendamenti. Molti sistemi policolturali di “Agricoltura Sinergica” consentono produzioni doppie e triple di quelle industriali, risultando nel contempo protettive dell’ambiente, della salute e della fertilità dei terreni. E produttive di posti di lavoro dignitosi in una agricoltura nel contempo moderna e tradizionale.

Paolo D'Arpini


Referente P.R. Rete Bioregionale Italiana
bioregionalismo.treia@gmail.com 


(Mucca solitaria  - Foto di Gustavo Piccinini)

martedì 21 novembre 2017

Alimentazione e clima sono correlati


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Le scelte alimentari influenzano il clima “Forse meno evidente, ma altrettanto critico, è l’impatto che le scelte alimentari quotidiane possono avere sul cambiamento climatico” sostiene la studiosa Marta Antonelli, “modificare a livello globale le nostre abitudini può essere considerata come una delle soluzioni più efficaci: lo confermano i dati internazionali”. 

Un report inglese del Dipartimento delle politiche per l’energia e il cambiamento climatico (DECC), il Prosperous living for the world in 2050: insights from the Global Calculator, sostiene che se nel 2050 tutta la popolazione mondiale – circa 9,5 miliardi di persone secondo le stime FAO – consumasse 2.100 kcal al giorno di cui solo 160 derivate dalla carne come suggerito dall’Oms, le emissioni di CO2 si ridurrebbero di un terzo rispetto ai valori del 2011. Una dimostrazione di come scelte alimentari più sostenibili possono davvero cambiare le cose.

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(Fonte: A.K.)