venerdì 8 gennaio 2016

Economia e clima... possiamo cambiarli (in meglio)?



Scrivevo il 31 luglio del 2015:   «un aumento della temperatura di
quasi due gradi rispetto all’anno precedente (come quello registrato
in questo mese di luglio) non è un’anomalia, è un’enormità.»  E,
infatti, alla lunga estate calda è puntualmente seguìto un
autunno-inverno dai toni nettamente primaverili e dai contorni
inquietanti: siccità, fiumi e laghi al lumicino, polveri sottili che
inquinano l’aria e minacciano i nostri polmoni. Contemporaneamente,
nella non lontana Inghilterra i fiumi traboccano e le inondazioni
devastano città e campagne.

Da pochi giorni, intanto, ha concluso i suoi lavori l’ennesima
Conferenza mondiale sui mutamenti climatici. I governanti del mondo
intero si sono ritrovati a Parigi per discutere sul da farsi per
evitare che la situazione peggiori. Non per invertire la rotta – si
badi – ma soltanto per arginare, per moderare, per attenuare. Il
grande Accordo di Parigi, raggiunto facendo appello alla saggezza di
quei saggissimi statisti, prevede che l’aumento del riscaldamento
globale sia limitato “solo” a 1,5 gradi; e neanche sùbito, ma fra il
2030 e il 2050, ed a patto che l’accordo stesso sia ratificato dai
parlamenti di quegli Stati che immettono nell’atmosfera almeno il 55%
dei gas serra. Come a dire: lasciamo arrostire il mondo, e poi – fra
il 2030 e il 2050 – vedremo cosa si può fare per quel che ancòra è
rimasto.

Attenzione: i governanti del mondo non sono tutti imbecilli, sanno
benissimo che cosa si dovrebbe fare per fermare i mutamenti climatici.
Ma non possono far nulla, perché tutti gli opportuni interventi hanno
un costo elevato, e gli Stati – tutti gli Stati, anche i più ricchi –
non dispongono dell’enorme quantità di danaro che sarebbe necessaria.
Il problema è sempre lo stesso: gli Stati hanno rinunziato al
diritto-dovere di creare moneta, attribuendo tale facoltà al sistema
finanziario (privato) che fabbrica il denaro e lo presta agli Stati
stessi. In tal modo i padroni della finanza speculativa (parlo dei
signori del mercato, naturalmente, non delle piccole banche
commerciali) si arricchiscono al di là di ogni immaginabile limite,
oltre ad acquisire – attraverso le privatizzazioni – i cespiti
dell’economia reale degli Stati.

Ma, torniamo ai mutamenti climatici. Basterebbe che gli Stati si
riappropriassero delle loro naturali prerogative per disporre delle
risorse necessarie a fermare il disastro ambientale. Eppure, nessuno
fra gli illustri conversatori della conferenza parigina si è sognato
di dire una cosa così ovvia: il mondo sta andando in fumo, per
salvarlo basterebbe disporre delle risorse finanziarie necessarie,
creiamo noi queste risorse e spendiamole oculatamente. Nossignori, la
catastrofe ambientale non è un motivo sufficiente a porre in
discussione il “diritto” dei mercati ad arricchirsi sulla pelle dei
popoli. Che il mondo vada pure in malora, purché la finanza usuraia
possa continuare a fare gli affaracci suoi.

E, invece, basterebbe un po’ di coraggio, di lucido coraggio per
salvare il mondo. E ci si arriverà, prima o poi. Magari non mettendo
in discussione il diritto dei mercati a succhiare il sangue dei
popoli, magari consentendo che gli Stati creino in proprio soltanto il
danaro strettamente necessario per affrontare i disastri climatici e
le sfide ambientali, magari con tutte le limitazioni possibili e
immaginabili, ma alla fine il Mondo dovrà per forza prendere atto che
gli interventi per la sua salvezza devono essere fatti, piaccia o non
piaccia a Moody’s o alla Banca Rotschild.

Ritornando all’affermazione contenuta nel titolo – “il disastro
climatico può essere fermato” – come si potrebbe agire nell’immediato?
Creando una istituzione monetaria pubblica, con la partecipazione di
tutti gli Stati del mondo in misura proporzionale al numero dei
rispettivi abitanti, ed autorizzando tale istituzione ad emettere dei
titoli di credito (cioè soldi) spendibili esclusivamente per gli
interventi di salvaguardia ambientale: dallo sviluppo massiccio delle
energie rinnovabili all’adeguamento delle strutture industriali di
singoli Stati agli standard più ecologici, passando per le misure –
anche “minori” – di risparmio energetico e per ogni altra iniziativa
volta alla tutela del mondo in cui viviamo.

È un’utopia? Non credo. Sono convinto che prima o poi ci arriveremo,
saremo costretti ad arrivarci. Spero soltanto che si faccia presto,
perché il Mondo non può attendere.

Michele Rallo


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