domenica 15 novembre 2015

Bioregionalismo, salvaguardia del suolo e produzione del cibo quotidiano



Sono agricoltore di scuola e tradizione organica, agronomo e storico
autodidatta che, oltre alla pratica empirica, ricerco e studio da
decenni la mia materia, l’Agricoltura.

Che non intendo solo come semplice coltivazione biologica o
biodinamica dei campi, o un settore economico del vigente sistema di
mercato capitalista globale, ma nella sua piena accezione originaria
latina del termine il quale significa: cultura dei campi coltivati,
ossia arte/mestiere, scienza, società, economia e spiritualità;
cultura del rapporto diretto tra uomo e madre terra, tra humanus e
humus, rapporto di humilitas, virtù opposta alla superbia: l’uomo è
terra e tornerà inumato alla terra come ceneri di azoto, fosforo,
potassio …

La mia conoscenza agronomica ed ecologica segue la linea storica che
va dai cacciatori-raccoglitori agli allevatori e coltivatori, in cui i
primi si evolsero, tutti anche artigiani, migliaia di anni fa, creando
quella cultura dei campi coltivati, arrivata sino a noi pochi decenni
orsono, come Civiltà Contadina. Non la civiltà urbana, perché gli
agricoltori non vivono nelle città e quella rurale le fu sempre
parallela e complementare.

I primi scrittori di agricoltura dei quali sono rimaste le opere sono
latini e riportano, a loro dire, un sapere che già fu loro tramandato
da tempi remoti. Ad uno di questi letterati agronomi si deve la
definizione originale dell’Agricoltura: “Non solo è un’arte, ma anche
necessaria e di assoluta importanza; ed è anche scienza, di quello che
sia da coltivare e produrre in ciascun campo, affinché la terra renda
in perpetuo il massimo dei frutti”.


La sostenibilità agro ambientale che oggi andiamo cercando era già
caratteristica degli antichi fondi agricoli, complessi organismi
viventi, unità di ecosistema coltivato, che riproducevano i cicli
perenni e rinnovabili di quelli naturali e selvatici.

Nel medioevo solo i monaci cistercensi mantennero memoria e pratica
dell’Agricoltura classica, sino a che, nel Rinascimento, il corpus di
testi noti nell’insieme come De Re Rustica furono riscoperti e
rivalutati e divennero il fondamento della nuova scienza agronomica
europea, la quale fu diffusa, nei secoli successivi, da diversi autori
e scuole che ne ripresero e rielaborarono principi e contenuti, sul
modello della villa rustica autosufficiente romana, diversa dal
latifondo schiavista.

Quindi, intorno alla metà dell’Ottocento, l’Agricoltura organica,
giudicata arretrata, superstiziosa e legata all’ancien regime, di cui
era il fondamento dell’economia, fu sconfitta a livello accademico e
politico dal materialismo scientifico, il quale vi oppose il
“progresso” dell’agrochimica inorganica ed industriale moderna che
oggi predomina.

Nonostante i profondi cambiamenti politici, culturali, sociali ed
economici portati dalla rivoluzione liberale borghese nell’800,
l’agricoltura organica tradizionale è però sopravvissuta resistendo
nelle campagne non solo sino a pochi decenni fa, ma è continuata, in
forme e metodi aggiornati come contemporanea agricoltura biologica e
biodinamica.

Dalla fine anni ‘70 si parla inoltre di agricoltura permanente, o
Permacultura e di Agro-ecologia, che non sono affatto nuove scienze,
ma hanno radici profonde sino a quei cacciatori raccoglitori da cui
tutto ebbe origine e si inseriscono quindi in un filo conduttore
storico e millenario di tempo ciclico, e non lineare di sviluppo
illimitato e del sempre più nuovo che avanza.

Questo per il semplice motivo che le cosiddette leggi naturali , le
quali sono dedotte e misurate dall’osservazione dei cicli rinnovabili
e perenni di energia solare e materia vivente, sono immutabili nel
tempo e il rapporto uomo-terra madre non se ne discosta, né può farlo,
senza uscirne dai suoi parametri biologici, fisici e chimici, andando
contro natura.

La catena alimentare è per noi umani di latitudini temperate la catena
del pascolo e del detrito, formata da anelli che sono agganciati l’un
l’altro in interrelazione e che non possono essere infranti dall’uomo.
In particolare, l’anello tra vegetali ed erbivori ruminanti, che
trasformano la materia vegetale in humus fertile, è il fondamento
dell’agricoltura organica. Oggi abbiamo sostituito l’humus fertile con
i concimi chimici, tolto agli erbivori ruminanti la loro funzione
primaria, li abbiamo rinchiusi in allevamenti intensivi come macchine
da carne e da latte e il loro letame è considerato rifiuto
industriale, carico com’è di residui di antibiotici.
Altre considerazioni per completare il quadro del mio discorso.

L’agricoltura organica tradizionale ed i suoi modelli sono finiti in
secondo piano e progressivamente il loro impianto si è disgregato,
colpiti al cuore da leggi, burocrazie e tasse del sistema di mercato
capitalista “liberale”ed industriale, basato sul profitto e lo
sfruttamento e non più sulla rendita. Sono mutati paesaggi, società ed
economia, in modo definitivo dalla seconda metà del secolo scorso, ma
questo processo era iniziato, lento ed inesorabile almeno cent’anni
prima, qui in Italia, alla sostituzione del sistema monetario aureo,
sovrano e stabile, legato al valore del grano e del pane, delle merci
artigiane, dell’economia produttiva reale, con quello cartaceo a
inflazione e debito illimitato, utile solo alla speculazione
finanziaria e usuraia.

Culture rurali millenarie non si abbattono così facilmente con una
rivoluzione da parte di una minoranza di ricchi borghesi e
neoaristocratici che conquista il potere: per cambiare il paradigma
mentale dell’uomo, strappandolo dalle sue radici native in natura,
dalle sue conoscenze pratiche e modo di vita, è occorso un
condizionamento applicato a più di una generazione, sino a cancellare
ogni memoria storica e recidere il filo che unisce uomo a Natura.
Molto più difficile è riallacciare ora questo filo.

Il nonno contadino è distante anni luce dai nipoti cittadini, come lui
lo era già, pur molto meno, da suo padre e suo nonno, già “corrotto”
dai tempi nuovi e dall’avanzare ed imporsi di quello che per me, e non
solo, per vari suoi aspetti ed effetti è un falso progresso perché
deriva da un modello di sviluppo illimitato in un sistema come quello
terrestre che è invece limitato e a ciclo chiuso.

La memoria storica è comunque nei cromosomi, siamo parte inscindibile
della natura terrestre, alla quale il modo di vita urbano moderno è
sostanzialmente artificiale e alieno, memoria che rimane brace sotto
la cenere di archetipi lontani di vita naturale, cui questo odierno
sistema economico preclude però di fatto ogni via di realizzazione.

Mi riferisco a quell’istinto “primordiale” che indirizza vari
individui, oggi, ad un ritorno onirico alla terra e in seno alla vita
naturale, ma che si traduce nei fatti, spesso, in avventurismi
inconcludenti e parziali nei risultati, che causano anche delusioni,
nel tentativo di creare ex novo un modo di vita rustica , ma sulla
base di paradigmi propri della cultura progressista urbana: chi va in
campagna si porta dietro il proprio modello cittadino cui è stato
educato, le proprie abitudini cittadine, proprie interpretazioni delle
leggi naturali, creando ibridi con compromessi e contraddizioni, i
quali risultano poi di fatto o in situazioni estreme o nello rientrare
negli schemi da cui si era cercato di uscire.

Ci si aggrappa anche ad altre culture lontane, spuntandone alcuni
suggestivi elementi ed adattandoli, innestati a nuovi impianti, si
formulano nuove teorie ideologiche, per colmare un vuoto che
indubbiamente si è formato nello sviluppo di una visione materialista
della realtà. Stiamo cercando nuove identità.

Oggi, l’agricoltura biologica è settore del mercato di cui sta alle
regole, essendo pressoché totalmente incapace, quanto impossibilitata,
di esprimere una propria autentica cultura ed economia rurale. Si
producono monocolture industriali con “metodo” biologico, sacrificando
il creare unità organiche di ecosistema coltivato, come si dovrebbe in
teoria, perché sarebbe solo una spesa che non produce profitto e
neppure reddito, ed oggi, il fine del lavoro agricolo, anche bio, non
è il lavoro in sé a produrre auto sostentamento e surplus per il
mercato, a produrre un modo di vita più autentico e felice in cui
prendersi cura dell’ambiente e dei nostri simili, ma il denaro, i cui
valori non coincidono con quelli naturali, etica compresa.

Certo è che, nonostante il paradigma classico portante della villa
rustica, non si tratta affatto, da parte mia ,di sostegno nostalgico
del modello economico e sociale antiquato, dei contadini mezzadri del
podere tosco-emiliano. Ma la medesima agronomia ed economia era comune
anche a contadini liberi, senza padroni, con possesso quindi diretto
di propri mezzi di produzione, associati per convenienza reciproca in
rete solidale e locale di villaggio, con baratti e scambi d’opera, con
la disposizione di terre ad uso civico.

Così fu, ed è un bene che la struttura dell’antico classismo feudale
sia decaduta, ma si è buttata via l’acqua sporca con il bambino,anzi
il contadino, all’imporsi di quel binomio neoclassista di borghesia
capitalista e proletariato, nuovi padroni e nuovi servi, alienati,
questi ultimi, di ogni mezzo proprio di produzione per auto
sostentamento, consumatori passivi, risorsa umana lavorativa inurbata
da sfruttare in economie industriali.

È andata così, come contadini, paisan, campesinos, nativi cacciatori,
pescatori e raccoglitori del pianeta, siamo dalla parte dei vinti,
avrebbe potuto andar meglio, se il modello di sviluppo avesse con
lungimiranza e arte di buon governo tenuto conto che chi lavora la
terra, chi vive in natura, ha un’importanza fondamentale nella
custodia e gestione degli ecosistemi coltivati e naturali, e questo a
vantaggio anche e non ultimo di chi vive in città. Non stiamo parlando
dei moderni imprenditori agricoli con mega trattori e diserbanti, dei
bovini chiusi nei lager, munti e macellati come oggetti senz’anima.

Nei tempi che ci attendono, in cui l’agrochimica basata sul petrolio
avrà una fine, e si dovrà per forza rivolgere lo sguardo indietro alla
terra che ci nutre, ci accorgeremo che tanta è andata sprecata sotto
cemento ed asfalto, molta altra resa sterile. Questa crisi economica
che è di sistema e non di mercato, non solo sta creando povertà e
disoccupazione ma rivela tutta l’insostenibilità ambientale ed umana
del sistema stesso e richiama la necessità di soluzioni possibili che
non sono certo l’emigrazione su altri pianeti o le modificazioni
genetiche di piante ed animali. Piuttosto potrebbe essere il
riprendere in considerazione economie locali a sovranità alimentare e
monetaria, in cui l’uomo sia ricollocato al centro di modi di vita più
naturali, consapevoli che è la terra fertile la base della nostra
sopravvivenza e prodursi alimenti e materie prime organiche in modo
sostenibile e rinnovabile è, da sempre, ricchezza della civiltà umana.

Alberto Grosoli


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