martedì 30 giugno 2015

Appignano - Bioregionalismo, storia e cultura locale nell'intervento di Alberto Meriggi al conferimento della cittadinanza onoraria, il 27 giugno 2015




Signor Sindaco, o meglio, caro Osvaldo, signori consiglieri, autorità, colleghi, cari Appignanesi. Immagino che dovrei dire cose solenni e memorabili in una circostanza come questa, in un simile ambiente, di fronte a persone qualificate ed amiche, tanto, troppo, affettuose nell’enfatizzare ciò che io ho fatto per Appignano. Invece tengo a mia disposizione una sola parola, usuale e disadorna: Grazie! Ad essa affido i miei sentimenti che in questo momento si accavallano mescolando gioia, affetto, riconoscenza, procurandomi commozione ed emozione. Grazie dunque al Sindaco Osvaldo Messi, all’assessore alla cultura Vittoria Trotta, a tutta la Giunta e a tutti i consiglieri per aver voluto concedermi questo onore che tanto mi inorgoglisce, perché così grande e inaspettato e anche sproporzionato rispetto a quello che io ho fatto. La mia riconoscenza si amplifica e la decenza mi fa arrossire e chinare il capo se penso che prima di me tale riconoscimento Appignano l’ha conferito solo ad un importante e grande personaggio qual è stato il Prof. Luciano Chiappini del quale, al tempo della redazione della Storia di Appignano, ho avuto il piacere di apprezzare le doti umane, il suo magistero e la grande professionalità. Non nascondo che fa molto piacere trovarsi in tasca un titolo non inflazionato, ma questo procura anche un po’ di timore.

Ma un grazie anche a tutti coloro che in questi venti anni di rapporti con Appignano mi hanno gratificato con la loro stima pensando a me per avviare un percorso insieme nella vita culturale di Appignano. Penso alla prima persona che mi contattò per redigere una storia locale, la signora Zelia Cammarata, allora assessore, poi all’assessore Daniela Smorlesi per proseguire nello stesso cammino che finalmente raggiunse l’obiettivo con il Sindaco Maurizio Raffaelli e il suo vice e assessore Mario Gasparrini. Una lunga vicenda quella della redazione della Storia di Appignano, tanto da poterci scrivere sopra una storia della storia. E poi la vicenda del libro sugli Statuti, impresa sollecitata da Raffaelli e Gasparrini, avviata con Osvaldo Messi e l’assessore Luca Cerquetella e portata a compimento dalla passata amministrazione del sindaco Messi e dell’assessore Zepponi, con la pubblicazione del corposo volume presentato qui dall’illustre Prof. Mario Ascheri. Negli stessi anni l’allora presidente dell’Irca, Giancarlo Gagliardini, che ringrazio, mi affidò la curatela di un volume sulla famiglia Falconi.

Nel dire grazie non posso dimenticare persone che mi sono state vicine con suggerimenti e aiuti come Mario Buldorini e Roberto Bronzi, anche loro appassionati di storia locale e autori di interessanti ricerche e pubblicazioni. Voglio anche ricordare gli studenti universitari di Appignano che nel tempo mi hanno chiesto la tesi e si sono laureati con me, contribuendo a tenere sempre vivo in me il legame con le vicende storiche di Appignano. Mi piace ricordarli: Carla Calamante, Katia Grassi, Francesca Giuliani, Silvia Del Mastro, Daniela Smorlesi e don Claide Tarabelli che non è più con noi e che ricordo con tanto affetto. Costoro per primi dovrebbero tenere viva la fiaccola della passione per la ricerca sulla storia di Appignano e soprattutto coloro che oggi sono insegnanti dovrebbero stimolare altri giovani a proseguire sulla strada da loro intrapresa.

Non posso dimenticare le affettuose attestazioni di compiacimento, quando si è diffusa la notizia di questo conferimento, inviatemi da parte di amici e conoscenti di Appignano. Cito solo due persone che si chiamano allo stesso modo ma che, credetemi, per questa vita non troverete mai insieme nella stessa lista in una elezione amministrativa: sono Mario Buldorini e Mario Gasparrini. Il primo, avvezzo a scrivere e pubblicare anche poesie, appena conosciuta la notizia del conferimento ci ha scritto sopra una simpatica poesia in dialetto, il secondo mi ha inviato subito messaggi affettuosi e di congratulazione, e come loro anche altri.

Ci tengo a dire subito che la cittadinanza di Appignano che oggi mi viene conferita la considero come una legalizzazione di qualcosa che dentro di me già c’era. Consentitemi una battuta: se mi aprite il costato vedrete che dalla parte del cuore c’è scritto “Alta Pinus”, come nel vostro stemma. Scherzo ovviamente, ma fino ad un certo punto perché, a pensarci bene, come può uno che è nato e vive a Chiesanuova di Treia, a quattro chilometri da qui, non sentirsi anche un po’ di Appignano, questo non solo per la vicinanza, ma anche per una naturale omologazione tra le popolazioni, consolidata nel tempo e fatta di continui rapporti fra le persone, di interessi in comune, di amicizie e parentele. Se c’è un confine giuridico tra il Comune di Treia e quello di Appignano, presente sulle mappe, esso di certo non è presente nell’animo delle persone. 

Venendo in qua i Treiesi che stanno dopo il ponte detto delle tavole forse si sentono più di Appignano che di Treia. Del resto in alcuni periodi del passato Treia e Appignano sono state un tutt’uno e ancora oggi, venendo da Chiesanuova, un confine visibile non c’è, non c’è un ruscello, non c’è un fossato, non c’è un ponte. Se recupero i miei ricordi d’infanzia, anche se un po’ sbiaditi, risento ancora mio padre o mio nonno, che mi dicevano che Appignano stava dopo la curva “de Jometta”, quasi ad indicare l’inconsistenza di un confine legato all’esistenza terrena di una famiglia o di una persona. Ma attenzione, il nome Appignano non risuonava mai per intero in quelle parole. Appignano, pronunciato per intero, era un nome che allora era appannaggio solo dei pochi appartenenti alla classe dei colti e di quelli un po’ snob; per noi di campagna, e un po’ per tutti, questo paese era semplicemente Pignà e, qualche volta, al di là del confine, per indicarlo non si usava nemmeno il nome spezzato, bastava la burla che indirizzava verso “lu portu”, un appellativo antico che indicava il paese, frutto di una canzonatura la cui origine ha visto complici anche i Treiesi, per fortuna unitamente ad altri.

Oggi, in una giornata per me tanto importante, i ricordi si accavallano e affiorano nella mente tante testimonianze dell’antico legame tra la mia famiglia, me stesso e Appignano. Alcuni ricordi sono rimasti fissi, indelebili, impossibile da cancellarli e capaci sempre di suscitare tenerezza e nostalgia, come quando nella mia famiglia già a Pasqua si cominciava a valutare lo stato fisico delle ochette e delle paperette per capire se erano pronte per essere vendute il giorno della grande fiera di Appignano del 29 aprile, da noi in campagna conosciuta come fiera delle ochette. E quella mattina, tanto attesa, partivo con i miei, carichi di piccole ceste piene di animaletti da vendere, il cui ricavato veniva subito destinato all’acquisto di cose modeste, ma necessarie per il vivere quotidiano di una famiglia di contadini. Qualche spicciolo non avanzava mai, ma alla fine un soldino accantonato da mia madre quasi di nascosto, saltava fuori ed era il prezzo di un regalino per me che io sceglievo tra la sterminata moltitudine di coccette disseminate lungo borgo S. Croce. La più grande ricchezza che da secoli avevate. A me bastava una campanella di coccio o un fischietto e se andava bene ci usciva anche un piccolo salvadanaio, essendo stato rotto la sera prima quello vecchio, che in teoria era solo mio e il cui contenuto era promesso a me, ma a me non arrivava mai. In una situazione di povertà tutto diventava utile per tutti.

Quello non era solo il giorno della fiera, era anche un giorno di festa. Un giorno nel quale si tentava di alleviare la dura fatica di sempre e le pesanti rinunce. Gli uomini potevano concedersi un bicchiere in più e le donne trattenersi davanti alle bancarelle e scambiare convenevoli con le conoscenti. E di sicuro qualche conoscente di mia madre le avrà posto la fatidica domanda: “do’ vai co’ su fetò?”, u fetò ero io che di certo avrò posto subito a mia madre l’altrettanto fatidica domanda: “ o ma’ ca ditto quella? E mia madre mi avrà spiegato che se io a Chiesanuova ero un frichì a Pignà ero un fetò e le frichine erano fetacce. Solo alcuni decenni dopo ho capito che ad Appignano si parlava un po’ latino tutti i giorni, perché quel fetò derivava da fetus e capii anche perché gli animali nelle nostre stalle non partorivano, come diceva la maestra a scuola, ma fetavano. Dunque una straordinaria autonomia di linguaggio tutto appignanese sciorinato con una cadenza unica nella zona. Molto più tardi mi sono reso conto che quello forse poteva essere un elemento di confine tra Appignano e le zone limitrofe come la mia, ma non era un ostacolo. Un patrimonio prezioso, con una sua giustificazione scientifica, che determinava l’identità di Appignano, ma che ormai è andato perduto.

Durante l’anno, per le necessità primarie, nella zona di Chiesanuova le famiglie frequentavano soprattutto Appignano perché ci si poteva arrivare in minor tempo e con meno fatica rispetto a Treia. La mia famiglia in particolare poteva contare qui ad Appignano su una vasta rete di parentele tra i piccoli commercianti, e il rivolgersi a loro poteva garantire un occhio di riguardo sulla merce da acquistare e soprattutto la speranza di ottenere un piccolo sconto. E allora oggi riaffiorano nella mia mente nomi curiosi che sentivo pronunciare spesso dai miei con espressioni tipo: “gimo da Tetella”, Tetella era una signora anziana, nostra parente, che gestiva nel borgo un piccolo emporio dove c’era di tutto, dalla pasta allo zucchero, dal sale al carbone. E riaffiorano altri nomi legati a Tetella: Flora, Fiume, immagino in memoria delle gesta di D’Annunzio e non del Monocchia che scorre qui sotto, e poi Lambì e Silvé, nomi spezzati che si adeguavano allo spezzamento di Pignà, ma che apparivano unici, indispensabili e non sostituibili per descrivere una identità, un carattere, una fisionomia. Tetella era sorella di Peppe de Scattulì, rappresentante di un altro filone nel guazzabuglio degli intrecci del parentado. 

Ricordo il curioso fazzoletto al collo, indossato anche d’estate, da un altro parente: Ristide de Giachetta, il cui figlio e figlie sono ancora qui. E che dire di Popò, un altro parente la cui moglie non poteva che essere per tutti la Popona. Popò vendeva casalinghi nella cui bottega i miei si recavano di rado per comprare piatti, bicchieri e qualche pentola che nell’indicarla non era mai pentola, ma sempre cazzarola e solo raramente assurgeva al rango di tegame. Più o meno quelle stesse botteghe rifornivano di brocche, brocchetti, bottiglie, vasi da notte e scaldaletti, questi ultimi detti monache, le quali per procurare l’effetto desiderato, sotto le lenzuola si dovevano unire al prete. Ma non c’era niente di sconveniente, era l’unico modo per riscaldarsi, ma le allusioni che i grandi facevano al riguardo, le ho capite solo dopo molti anni. Da un altro parente appignanese di nome Livio i miei compravano le famose pezze di stoffa da portare al sarto per confezionare qualche indumento, ma questo accadeva non più spesso di ogni morte di papa.

Mi piace aprire una parentesi per dire che l’antica rete di parentele, più o meno strette, non si è esaurita, ancora oggi è così, qui ad Appignano vivono gloriosi rappresentanti della vecchia guardia dei Meriggi, a Treia non ci sono, e qui sono presenti anche parenti del ramo di mia madre, gli Orsetti. Affetti che si estendono anche nella sacralità del Cimitero dove riposano altri parenti e anche i miei nonni materni. Molti dei vivi li vedo qui e li saluto.

Riferivo prima del passato e mi soffermavo su nostalgie e ricordi riemersi in me da un tempo che non c’è più. Un tempo ben descritto con un po’ di rimpianto da Mario Buldorini nel suo bel libro “Versacci appignanesi” e da Anna Zanconi in “La casa dalle persiane rosse” e in altri scritti. Ricordi che, per il semplice fatto di essere ben fissati nella mia mente, testimoniano l’esistenza di un vincolo stretto e antico tra me e questa comunità. Del resto poteva essere solo così perché a ben vedere io, appena nato, la prima persona che ho visto era di Appignano, la levatrice Liana e il primo medico che mi ha curato è stato il dott. Giuseppe Falconi, appignanese, egli e il fratello Giacinto erano anche i padroni del terreno di Chiesanuova dove io nacqui mezzadro. Ricordo ancora mio nonno che si agitava tutto, togliendosi il cappello, quando sentiva il clacson della giardinetta di Giacinto che in quel modo si annunciava un chilometro prima di arrivare. Meno traumatiche erano le visite del dott. Giuseppe che si muoveva con la sua fiammante Giulietta. E dopo il medico padrone fu la volta del medico pediatra, il dott. Massaccesi, sempre di Appignano, il cui nome Raul, a casa mia fu trasformato subito in Raole. 

Ma mi fermo qui perché se descrivo tutti i personaggi e gli aneddoti che di tanto in tanto mi ritornano in mente dovrei dilungarmi per ore e soffermarmi sul fattore, sul compratore delle vacche e su quello dei maiali, sul padrone della trebbia e su tanti altri, tutti personaggi di Appignano che nel tempo hanno avuto a che fare con la mia famiglia, come più di recente il dott. Marzio Milesi, con i suoi inseparabili pantaloni e stivali alla cavallerizza. Anche per questo, e non solo, Appignano non l’ho mai sentita estranea o indifferente.

Sono ricordi di un’epoca che, a guardarla con gli occhi di oggi, non appare lontana dalla fine della guerra, erano gli anni Cinquanta, periodo vicinissimo alla fine della guerra, ancora segnato da divisioni sociali nette, rigorose e dalle conseguenti palesi ingiustizie: da una parte ancora qualche nobile e diversi proprietari benestanti e dall’altra la gente comune, forse non sempre misera, ma povera sì e in continue angustie per il pane quotidiano. Ancora ricordo i racconti che riferivano di situazioni di assoluta povertà soprattutto della gente del centro abitato, una povertà però sempre vissuta, qui ad Appignano, con tanta dignità.
Ma oggi, in questa circostanza, desidero sottolineare un aspetto che io ritengo di notevole importanza e che non può essere sottaciuto. Dalla povertà e anche dalla miseria gli Appignanesi hanno avuto la forza di riscattarsi in fretta, più rapidamente di ogni altra cittadina della zona, distinguendosi su tutti nel giro di pochi anni per intraprendenza, capacità, voglia di sacrificarsi, impegno, iniziativa e creatività, elementi che hanno permesso a questa comunità di realizzare un progresso economico e sociale fino a qualche anno prima neppure lontanamente immaginabile. E di certo la locale classe dirigente di allora seppe anticipare quel tipo di politica di cui oggi in Italia si parla molto, ma che si stenta ad applicare: la politica del fare.

Forse qualcuno, in questo momento, pensa che sto indulgendo alla retorica in un giorno di complimenti. Non è così! Basta pensare ad un solo fatto, al nascere di quella industria del mobile tutta frutto dell’iniziativa locale che ha portato lavoro per Appignano e per i paesi vicini. Forse prima che nel Fabrianese sorse qui la figura del lavoratore cosiddetto metalmezzadro perché si divideva tra campagna, fabbrica e famiglia. Io mi accorsi di questo quando, ormai adolescente, ascoltavo in famiglia, ma anche in parrocchia e al bar (che non era ancora il bar ma solo il caffè) -ascoltavo dicevo- i ragionamenti degli adulti, tutti all’insegna dell’ammirazione per quello che avevano saputo fare gli Appignanesi, a differenza di altre comunità della zona che invece assistevano quasi impotenti ad una emorragia di popolazione verso la crescente zona calzaturiera. E mi accorgevo che a volte quella sincera ammirazione era anche condita da un briciolo di invidia per quella rapida crescita di questa comunità. E credetemi, ancora oggi, quando fuori di qui si parla di quei tempi, quell’ammirazione persiste e quello slancio degli Appignanesi verso il progresso e il benessere è ancora universalmente riconosciuto e additato come esempio.

E dunque, a ragione, il senso comune e la mentalità collettiva, dal dopoguerra ad oggi, hanno esaltato per Appignano soprattutto il lavoro e il benessere sociale, due settori in cui la cittadina è stata, ed è, all’avanguardia. C’è un rumore che tutti i giorni rammenta questo agli Appignanesi: alle otto del mattino e a mezzogiorno dal Comune suona ancora la sirena, a ricordare lo scandire dei tempi del lavoro nelle fabbriche, e nessuno lo avverte come fastidio, ma come ricchezza. E non mi pare che in altre località della zona sia presente questa usanza.

Cittadina del lavoro, dunque, ma va anche detto che per stare al passo con i tempi e per rispondere sempre prontamente alle sollecitazioni del progresso, Appignano ha dovuto costantemente guardare avanti, al futuro, aggiornarsi, magari sacrificando per anni la rivalutazione del proprio passato e delle proprie tradizioni. Forse più mobili che libri, ma anche qui c’è stato un immediato recupero grazie alla sensibilità, intelligenza e lungimiranza delle amministrazioni comunali che si sono susseguite da venti anni ad oggi, le quali hanno capito che se era vero che Appignano aveva per vocazione il pensare al futuro, era altrettanto vero che quel pensiero non poteva prescindere da quelle radici che traggono proprio dal passato la loro linfa vitale. In effetti avere a disposizione per la cittadinanza libri sulle proprie radici è indispensabile per ogni paese che vuol continuare ad essere comunità e non si può essere comunità senza avere coscienza della propria storia.

E a proposito mi fa piacere sottolineare un aspetto a onore e merito di Appignano che a me pare non trascurabile. In anni di difficoltà a livello di risorse per tutti gli enti locali, le amministrazioni di Appignano sono riuscite a muoversi per la cultura, settore sempre tra i primi ad essere taglieggiato. Io posso testimoniarlo perché in ogni circostanza è stata sempre Appignano che mi ha invitato a collaborare su progetti ben delineati, non mi sono mai fatto aventi io chiedendo e proponendo. Questo, ancora una volta, testimonia la sensibilità e la volontà delle amministrazioni appignanesi nel voler recuperare le proprie radici e di rivalutare il proprio patrimonio storico e culturale. Ed è cosa rara che i libri pubblicati siano stati donati a tutte le famiglie.

E allora permettetemi di rivolgere a tutti gli Appignanesi presenti una preghiera e di chiedere a loro di procurarmi oggi un altro motivo di soddisfazione: portate a casa i libri sulla storia di Appignano, soprattutto quello verde sugli statuti che non è stato molto divulgato, il Comune ne offre una copia ad ogni famiglia e, soprattutto, leggeteli, perché in quelle pagine ci sono le origini della vostra identità e in quelle righe c’è scritto come voi Appignanesi, nel corso dei secoli, attraverso sudori, sacrifici, ma anche gioie e soddisfazioni, siete diventati così come oggi siete, e da quelle righe emerge l’anima e lo spirito che vi contraddistinguono, appunto, come Appignanesi.

Io da quando ho cominciato a frequentare Appignano con una certa assiduità ho avuto la conferma di quanto da sempre ho sentito dire: Appignano effettivamente offre di sé l’immagine di una cittadina viva, intraprendente, con gente aperta, attenta al benessere proprio e della propria famiglia. Una vita sociale che ricorda un po’ quella dei villaggi di un tempo, con le persone aperte all’amicizia, alla comprensione del prossimo, alla condivisione delle gioie e dei dolori con i parenti, i vicini di casa, i conoscenti. E come in un villaggio ci si conosce tutti e si sa di tutti vita e miracoli, non solo di quelli viventi, ma anche di quelli di ieri e dell’altro ieri che riposano all’ombra dei cipressi, eppure ancora ci si ricorda di loro, delle loro virtù e dei loro vizi, delle loro generosità, estrosità e stravaganze. Qui si vive a stretto contatto di gomito, ma soprattutto di sentimenti e questo comporta il farsi carico con generosità delle sorti altrui.

Ad una popolazione così non si può che voler bene: abitanti impastati di terrenità e di cuore, di genialità e di sapienza antica, di fatti e misfatti, di sobrio scetticismo e di quello spirito fiero incarnato dal brigante Pietro Masi, il vostro Bellente. A me pare che gli Appignanesi abbiano ancora un forte spirito di appartenenza e come altrove, anche qui ci sono Guelfi e Ghibellini, santi e peccatori, devoti di S. Giovanni e Santa Tecla, ma anche di Bacco e Venere, ma quella di Appignano resta comunque una comunità compatta, dove rimane inviolata soprattutto la possibilità di dimorare con se stessi e cercare un senso più che alle parole, al vivere. Qui, al mattino, dinanzi a un manifesto funebre ancora fresco d’inchiostro e di colla, ci si raduna e si commemora l’amico o il conoscente scomparso, se ne rievocano le gesta amabili e non si manca di accompagnarlo nell’ultimo viaggio. Così anche il dolore appare più umano e partecipato e riserva quindi qualche dolcezza per il cuore. Sentimenti e valori questi che nella massificazione delle più grandi aree urbane purtroppo vanno scomparendo.

E io, oggi, sono davvero felice di non essere più un appignanese abusivo e sono orgoglioso e fiero di essere diventato cittadino di una comunità che conserva questi valori e questi sentimenti, ancora capaci di far raggiungere la tranquillità della propria coscienza, che è l’unico ponte verso la felicità.

Avvicinandomi alla conclusione rivolgo a voi una domanda che spesso ho rivolto a me stesso: mi avete dato questo riconoscimento perché per Appignano ho fatto lo storico, ma serve ancora la storia in un mondo come quello odierno in cui tutto sembra essere proiettato verso il futuro? Ha ancora senso fare il mio mestiere e scrutare il passato oggi che è in atto un processo di mondializzazione e globalizzazione ad ogni livello e in ogni settore? La mia risposta è sì! 

Proprio perché è in atto questo processo di globalizzazione è più che mai necessario evitare di lasciarsi schiacciare dal livellamento globale verso cui tutto sembra tendere, e anche la cultura. Dobbiamo evitare che le abitudini, i costumi, i comportamenti, le peculiarità e gli stili di vita tendano sempre più a omogeneizzarsi, col rischio di scomparire e di far perdere le proprie radici agli individui e alle comunità. La vostra sapienza con la terracotta, il vostro straordinario e unico dialetto, la capacità di costruire mobili, l’antica devozione per la chiesetta dei santi, sono espressioni uniche della vostra identità che non possono essere gettate nel dimenticatoio. Allora credo che bisognerà dedicare più energie per salvare e rivalutare le identità e questo è possibile farlo dedicando più attenzione e più risorse al recupero e alla valorizzazione delle tradizioni e del patrimonio storico anche delle piccole realtà, perché li si trovano le radici delle identità. I libri di storia sono strumenti utili e indispensabili per non disperdere le proprie radici, ma anche per cogliere gli aspetti positivi del passato e per non ripeterne gli errori.

Concludo ringraziando e salutando tutti i presenti, le autorità che mi hanno onorato con la loro presenza, e rinnovando al Sindaco e a tutti gli Appignanesi i sensi della mia gratitudine per l’onore conferitomi quest’oggi, impegnandomi a garantire, nei limiti delle possibilità e capacità umane, se richiesto, di collaborare con voi anche per il futuro. E in questo momento mi piace pensare che quando tu Osvaldo e l’amministrazione avete deciso di rendermi appignanese con la carta intestata, sapevate già che io nel cuore ero da sempre “unu de Pignà”.

Grazie! Alberto Meriggi




Intervento letto ad Appignano il 27 giugno 2015 per il conferimento della cittadinanza onoraria.

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