venerdì 6 gennaio 2012

Calze, coscie… donne accasciate… e produzione aliena dell’Omsa

Angelo triste - Dipinto di Franco Farina
 
 
Ante scriptum – Tempo addietro avevo pubblicato una lettera in cui una signora raccontava il dramma suo e quello di altre donne il cui posto di lavoro era messo a repentaglio dal trasferimento della catena di produzione dell’Omsa, che si sposta in Serbia (http://www.circolovegetarianocalcata.it/2010/03/11/faenza-ra-omsa-sposta-la-produzione-in-serbia-e-le-lavoratrici-restano-a-spasso-per-non-soccombere-in-silenzio/).

Nel frattempo la cosa è andata avanti e sul problema dell’Omsa e delle sue dipendenti si sono attivate varie persone e si è innescata una catena di solidarietà, soprattutto sul solito facebook.. Non so a cosa possano servire queste “catene” forse solo a svolgere una funzione “pro consolatio afflictorum”…

Infatti il problema dello spostamento della produzione in altri paesi non riguarda la sola Omsa, che almeno si sposta in Serbia dove sussiste un minimo di garanzia sindacale e di decenza politica.. Che dire delle numerose aziende, magari all’insaputa di tutti, che hanno sin dall’inizio impostato le loro catene di montaggio in lontani paesi del terzo mondo (continuando però a spacciare i prodotti come Made in Italy)? La crisi economica in Europa, massimamente dovuta alla virtualizzazione dell’economia, è iniziata da almeno un ventennio…

L’economia produttiva ha lasciato il posto alla finanza dei pezzi di carta colorata (azioni, buoni, investimenti finanziari, etc.). Il che significa che l’Italia e l’Europa sono destinate nel tempo a non produrre più nulla, di beni reali, ma di limitarsi a mantenere un copyright sui beni prodotti all’estero (finchè dura..). Questo in conseguenza della pesante pressione fiscale mantenuta per soddisfare il sistema parassitario della nostra amministrazione pubblica.

In Italia i reali lavoratori, quelli che veramente producono qualcosa, non arrivano al 20% (contadini, artigiani, tecnici, operai, professionisti, etc.), tutti gli altri campano di rendita o nei “servizi” o come parassiti burocratici e politici. Come si può perciò pretendere che la nazione prosperi?

Purtroppo l’Omsa se vuole sopravvivere, come firma, è costretta a spostare la produzione in Serbia.. come molti italiani, magari intelligenti e preparati, se vogliono lavorare debbono emigrare in Australia, in Africa, in America… Per loro in Europa non c’è più posto.. i posti sono tutti occupati dai consiglieri, presidenti, deputati, senatori, etc. etc.

Paolo D’Arpini

Per solidarietà umana e per completamento dell’analisi pubblico di seguito un intervento di Caterina Regazzi.

Su internet, che ormai é una delle sedi in cui ri-nasce la contestazione al sistema, circola da alcuni giorni ed in diversi profili questo appello, che si può condividere e inviare ad amici reali o solo virtuali, che invita a boicottare la ditta Omsa, con i suoi marchi Omsa e Golden Lady, perchè: “Con un fax inviato alla vigilia di Capodanno, la Omsa ha comunicato a 239 lavoratrici il loro licenziamento.

La decisione di chiudere lo stabilimento di Faenza per riaprirlo in Serbia non ha giustificazione: la Omsa, infatti, non è in crisi, produce e vende tantissimo, si fregia del marchio “made in Italy” e in Italia ha il grosso del suo mercato. Ma in Serbia, forse,può sfruttare meglio chi lavora. Sul web è montata l’indignazione ma anche la volontà di far cambiare idea alla proprietà. Abbiamo poche settimane di tempo per convincerli a non chiudere, a non mandare centinaia di famiglie sul lastrico. Per farlo dobbiamo farci sentire.

Vincere questa battaglia significa lanciare un monito a tutte le aziende che, dopo aver goduto per decenni di benefici e sovvenzioni, in un momento di crisi del Paese, abbandonano la nave al solo scopo difare qualche profitto in più sfruttando manodopera a basso costo all’estero”.

Condivido le motivazioni e il tipo di protesta ed infatti ho pubblicato l’appello anche sul mio profilo di facebook. Stamattina, però mi sono imbattuta sempre su Internet – Informare per resistere – su un altro articolo che ho trovato molto interessante e che mi ha stimolato riflessioni che voglio condividere con voi: riporta “l’intervista adun responsabile di produzione di Calzedonia Group, altro colosso dell’intimo made in Italy, pardon, Sri Lanka.
E’ particolarmente significativo, per capire il perché questi imprenditori amino tanto delocalizzare le produzioni, questo passaggio dell’intervista……….:
“D: torniamo in mezzo all’Oceano Indiano, perché la scelta è caduta suquell’isola?
La localizzazione in Sri Lanka è stata frutto di una accurata indagine e sopralluoghi effettuati qualche anno fa in diverse regioni del Mondo in via di sviluppo, tra cui India, Pakistan, Bangladesh e Cina. Ne ricavammo molte informazioni ma, soprattutto, risaltava in modo particolare il caratteristico ed apprezzato equilibrio e la scarsa conflittualità sociale della popolazione dello Sri Lanka. Naturalmente ha molto influito anche una iniziale intuizione del dottor SandroVeronesi [patron di Calzedonia, n.d.r.], poi rivelatasi fondata, sull’elevata capacità di apprendimento delle maestranze indigene con riflessi evidenti sugli indici qualitativi e di produttività.

L’assenza o quasi di vincoli sindacali garantiscono una flessibilità sulla numerosità degli organici assolutamente impensabile nel mondo industrializzato. Sotto questo punto di vista le localizzazioni dell’est Europa hanno già segnato il passo, determinando rapidi
dietrofront sulle decisioni di nuovi insediamenti o ampliamenti dei siti produttivi. “
D: e nel Belpaese non si produce più nulla?
Poco purtroppo! In Italia utilizziamo talvolta qualche terzista per produzioni integrative a quelle estere, soprattutto in situazioni di emergenza (consegne urgenti, problemi produttivi negli stabilimenti esteri, etc,). E’ una collaborazione assai limitata che rappresenta solo un pallido esempio di quella esistente fino a pochi anni fa., con funzione di back up alle produzioni principali che si avvantaggiano dei bassi costi della manodopera di quei paesi. Qui ad Oppeano rimane il centro distributivo composto dal magazzino di prodotto finito.”


In fondo, viva la sincerità. L’unico problema quindi, l’unico ostacolo alla famosa Crescita è il costo della manodopera. Se si riesce a mantenere basso, perché quello delle materie prime è un po’ più complicato da abbattere, a parità di prezzo da far pagare all’utente finale, il gioco è fatto……. (segue)”


Quindi, la produzione di tali articoli costa all’impresa un prezzo molto conveniente, per il basso costo della manodopera e la scarsa “conflittualità”: gli operai si accontentano, o per loro, comunque, la cifra che guadagnano, é adeguata, e non c’è rischio di scioperi e assenteismo. Altri paesi, come la Serbia offrono a chi investe nel loro paese, incentivi e facilitazioni, economiche e fiscali.

Perciò, va bene boicottare Omsa, perché il problema delle donne che potrebbero essere licenziate é contingente, ma quanti posti di lavoro non sono mai stati creati in Italia perché gli imprenditori italiani vanno ad aprire aziende nuove direttamente all’estero? La ditta in questione sarà pure in attivo e i suoi prodotti sono sicuramente diffusi in Italia, ma potrà a lungo, sopportare la concorrenza di altre aziende che aprono direttamente stabilimenti all’estero?
Si parla tanto di acquistare il più possibile prodotti realizzati localmente, per aiutare la nostra economia e possiamo farlo con, ad esempio, i prodotti alimentari, per i quali esiste già oggi una notevole trasparenza: per quelli confezionati, che sulle etichette devono portare almeno la sede dello stabilimento produttore (ma le materie prime?), per le carni (per quelle bovine c’è una tracciabilità dell’animale dal paese di nascita a quello di macellazione e lavorazione e fra un po’ sarà obbligatorio anche per le altre specie animali), e questo é anche garanzia di una maggior freschezza dei prodotti, ma per gli altri beni, perchè non deve essere certa la provenienza e la sede di fabbricazione? Perché, a quanto pare, per poter etichettare un capo di abbigliamento come “made in Italy” é sufficiente applicarci un etichetta o confezionarlo? Non sarebbe il caso di emanare una legge che, ad esempio, obbligasse i produttori a garantire l’informazione al consumatore, magari pubblicando su Internet le sedi italiane o estere dove vengono espletate le varie fasi della lavorazione, o raccogliere queste informazioni su un cartellino che accompagna la merce?

In questo modo chiunque sarebbe consapevole che facendo una scelta di un certo prodotto, contribuirebbe o meno al mantenimento di un’economia locale. Certo i prezzi dei prodotti veramente italiani potrebbero essere più alti, ma sopportabili se ognuno si attenesse ad acquistare solo il necessario e non il superfluo, e non ci fossero la moda dell’”usa e getta” e il consumismo sfrenato e inconsapevole che forse solo questa crisi potrà ridimensionare.
Non vorrei passare per campanilista, non ho nulla in sé contro il libero mercato, ma se é a parità di condizioni….. non mi pare etico e neanche ecologico, che noi, paese ricco, anche se oggi un po’ meno, dobbiamo continuare a sfruttare risorse (materie prime e manodopera) per soddisfare il nostro consumismo.

Caterina Regazzi

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