lunedì 23 maggio 2011

Bioregionalismo “ante litteram” da Alain de Benoist a Eduardo Zarelli...

La foto ritrae un bosco di castagni secolari sui Monti Cimini - Scatto di Gustavo Piccinini


 
Spesso, parlando del movimento bioregionale, si fa riferimento ai suoi esponenti americani (Gary Snyder, Peter Berg, Kirkpatrick Sale e altri) oppure si menziona l'apporto ecosofico del norvegese Arne Naess ma si tende a ignorare il contributo di un pensatore antesignano in questo “nuovo” filone ecologista (nuovo nel senso di riscoperta di certi valori naturalistici), quel precursore fu il filosofo francese Alain de Benoist. Già durante i primi anni sessanta Alain de Benoist veniva “accusato” di anti-atlantismo ma il suo processo di maturazione lo portò a costruire un percorso originale fatto di critica verso la globalizzazione, il liberismo finanziario ed in favore delle piccole patrie e delle identità culturali. Negli ultimi anni ha sviluppato una forte critica nei confronti della politica imperialistica degli Stati Uniti. De Benoist considera la democrazia rappresentativa come un limite per poter sviluppare un maggior coinvolgimento popolare alla vita politica di un paese. Pur essendo piuttosto critico nei confronti dell'Unione Europea crede fortissimamente in un'Europa unita e federale, dove il concetto di nazione viene a decadere in favore delle identità regionali unite da un comune senso di appartenenza continentale. Il suo pensiero è difficilmente classificabile in quanto sintetizza alcuni dei concetti che abbracciano l'ecologismo, il multiculturalismo (a tutela delle identità culturali dei vari popoli), il socialismo, il federalismo comunitario e il paganesimo.

Sicuramente Eduardo Zarelli fondò la sua ricerca socio-ecologista partendo dalle idee di Alain de Benoist, ricordo infatti la rivista da lui creata e diretta “Frontiere” che nei primi anni '90 iniziava a parlare di autonomie, di etnie, di bioregioni.... insomma di tutti quegli argomenti propri, contigui ed affini ad discorso bioregionale... Forse, a differenza dei bioregionalisti americani, che pongono l'accento sul luogo e sui suoi aspetti di omogeneità geografica, de Benoist -e successivamente Zarelli- cercarono di individuare il senso di presenza vissuto nel luogo, basandosi ovviamente sui parametri descrittivi della comunità umana. Sento che questo approccio mi è affine.. anche se il mio spirito laico preferisce mantenersi sciolto dalle pastoie ideologiche che spesso contraddistinguono la perenne diatriba fra antropocentristi e biocentristi... anche in considerazione del fatto che entrambe le visioni sono elaborate da “esseri umani”.... e dirette verso una trasformazione intenzionale -o “controllo”- della società umana (vedi ad esempio le teorie primitiviste di Zerzan)... Ma, come affermò l'adepto taoista Alan Watts, ogni forma di controllo ricade infine sul controllore....

Paolo D'Arpini


Ora leggete questa critica della ragione mercantile di Eduardo Zarelli

La globalizzazione è l’iperbole dell’utopia mercantile, dell’idea che il “benevolo” commercio porti la pace e l’armonia universale tra gli individui. Idea nella realtà violenta e unilaterale, perché chi si rifiuta di farsi “armonizzare”, cioè colonizzare con le suadenti armi del mercato, è semplicemente bandito dall’umanità, nemico assoluto del genere umano contro il quale ogni misura repressiva e/o bellica è non solo lecita, ma doverosa.

Di economia non si parla prima di Platone e Aristotele. Questo non significa che prima non esistessero pratiche materiali. Queste, principalmente la sussistenza comunitaria e la riproduzione dei gruppi sociali, non sono pensate come una sfera autonoma. Non esisteva qualcosa come la “vita economica”, bensì la vita tout court.
La progressiva autonomia dell’economia dalla vita nel suo complesso è dovuto allo sviluppo unilaterale manifestatosi storicamente da un certo punto in poi nella ragione occidentale. La ragione aveva presso i greci due aspetti: il logos, la ragione e la phronesis, la saggezza. Serge Latouche pensa che nel pensiero dell’Occidente moderno, il logos si sostituisca del tutto alla phronesis e diventi “ragione sufficiente” e, quindi, “razionalità calcolante” economica.
La ragione mercantile tuttavia, avendo perso di vista la saggezza, cioè la vita nella sua totalità, è sempre meno in grado di spiegarla e rappresentarla. Se non cercando disperatamente di ridurre la vita mero utile sensistico. A questa razionalità calcolante, strumentale, va opposta la dimensione del ragionevole. Quando ci si occupa di esseri umani, la razionalità strumentale e calcolante, non basta più, perché si ha a che fare con dei valori: la giustizia, la libertà, la dignità. Solo eliminando ogni valore, o collocandosi all'interno di un solo valore, il pensiero unico occidentale, ci si potrebbe affidare alla sola razionalità calcolante, con gli esiti tecnomorfi nichilistica, etnocentrici universalistici e paranoico imperialistici che sono sotto gli occhi di tutti.  
Di questo allargamento di prospettive e di conoscenze, rispetto al pensiero economico dominante, siamo debitori nell’ambito delle scienze sociali al MAUSS, il movimento economico non utilitarista, che prende il suo nome dal sociologo che rilevò come la compravendita, o il baratto non siano affatto state le uniche forme di scambio nella storia umana, ma come il dono e la reciprocità abbiano svolto una funzione altrettanto e, in alcuni casi, più importante. È in tal senso teorizzabile un modello donativo, in sostituzione del modello utilitario dominante? Allo sguardo antropologico e psicologico, consapevole che quanto è rimosso fatalmente tornerà, ma in forme distorte e patologiche, si parlerebbe di “rimozione”, di schizofrenia tra principio di piacere e realtà fattuale, storica; ma se ogni effetto ha una causa, e il consumismo dominante ingenera una condizione precaria della società e dell’individuo, immaginare un superamento del dominio dell’economico nell’immaginario culturale è un passo fondamentale per costruire modelli sociali che siano in grado di ricondurre l’economico a strumento di sostenibilità comunitaria e naturale, al servizio dell’uomo.

Di fronte alla crisi economica e sociale del modello di sviluppo occidentale diventa realistico criticare la ragione stessa dell’economicismo moderno: lo sviluppo illimitato e la mercificazione dell’esistente. In tal senso, prima ancora che una prospettiva economica, la “decrescita” riguarda la sfera della mentalità.

Si tratta di cominciare a far “decrescere” l’idea che lo “sviluppo” degli scambi mercantili sia una legge naturale della vita. Il messaggio che pubblicità e media diffondono continuamente è che il benessere passa attraverso il consumo, ovvero attraverso l’appropriazione continua di una quantità sempre maggiore di oggetti. L’assimilazione di tale messaggio dalle coscienze equivale ad una vera e propria colonizzazione dell’immaginario simbolico, dunque non a torto si può parlare di un mutamento antropologico (l’uomo concepito esclusivamente come produttore-consumatore). Per rompere con il primato dell’economia, è necessario imparare ed essere capaci di dire: “mi basta ciò che ho” piuttosto che “voglio sempre di più!”. Quel “nulla di troppo” che insieme all’altra sentenza morale gnomica di Solone, “prendi a cuore le cose importanti”, rimandano alla sapienzialità e alla ricerca eudemonistica, fondamenti di filosofia.

Nel linguaggio corrente il termine sviluppo è fonte di un equivoco teorico sostanziale. Il concetto espresso con questa parola è di norma l'aumento del fluire dei beni materiali attraverso il processo produzione-vendita-consumo. È evidente che, con questo significato, lo sviluppo richiede l'aumento dei consumi. In altre parole, il termine sviluppo significa oggi la crescita economica illimitata. Gli abituali indicatori dello sviluppo sono sostanzialmente quantitativi. Conseguenzialmente si pensa che questa crescita aumenti il benessere dell’umanità, indipendentemente dai valori e dalla cultura che li esprime. Inoltre, fino ad oggi non si è mai presa in considerazione la possibilità che l'aumento dei consumi sia incompatibile con il funzionamento della biosfera, anche perché è venuta meno la consapevolezza che l'uomo sia parte della natura.
La crescita economica continua, illimitata, è un processo che impedisce il funzionamento della biosfera perché ne disarticola i cicli: è quindi un fenomeno fisicamente impossibile. Un’economia complessivamente in crescita può soltanto essere transitoria, un fenomeno sintomatico che, se non riequilibrato fisiologicamente, diviene patologico e porta necessariamente verso il degrado oncogeno dell’organismo relazionale tra risorse, produzione e consumi. Se poi ci poniamo in una prospettiva qualitativa e mettiamo in conto la bellezza del mondo e il benessere degli altri esseri senzienti, la situazione si aggrava ulteriormente. Lo “sviluppo” è, infatti, basato su una visione antropocentrica, che relega gli altri esseri animati, gli ecosistemi e tutto il mondo naturale al rango di “materia” a nostra disposizione.
Oggi invece le conoscenze scientifiche più avanzate riabbracciano le interpretazioni tradizionali cosmocentriche in un paradigma olistico, per cui l’uomo è parte relazionata di un organismo vivente, l'ecosistema, da cui dipende totalmente. Se l’uomo è l’unico essere vivente consapevole di ciò ha il dovere di invertire la tendenza e mutare il modello tecnologico scientifico ricucendo empaticamente la frattura tra cultura e natura provocata dal riduzionismo materialistico.
L’obiezione umanitarista si sposa, volenti o nolenti, con le lusinghe del progresso economico, sostenendo che lo sviluppo porta miglioramenti “a chi non ha”, ma a tal riguardo basta considerare che la forbice fra “ricchi” e “poveri” si è allargata in proporzioni direttamente proporzionali con la crescita economica, raggiungendo all’oggi un solco incolmabile. Inoltre, i concetti stessi di ricchezza e povertà sono una proiezione economicistica distorta dell'occidentalizzazione.
La modernità porta a compimento la divisione tra cultura e natura. Invece, in tutte le culture sapienziali, ogni corpo individuale, compreso quello umano, è sempre parte integrante del corpo cosmico, determinazione intrinseca di quell’ordine universale che è la Natura.

Nella tradizione Taoista «L’uomo si conforma alla Terra, la Terra si conforma al Cielo, il Cielo si conforma al Tao, il Tao si conforma alla spontaneità». La spontaneità è sinonimo di naturalezza, categoria eversiva nel mondo artificiale del contrattualismo sociale e del dominio tecno-scientifico.

Bisogna quindi uscire dal conformismo delle regole fatte convenzioni morali, sociali, culturali e politiche: l’uomo per conformarsi al Tao, deve pertanto «volgersi alla radice», «volgersi all’origine», «uniformarsi al fondamento», ossia riconquistare quelle condizioni di spontaneità che vigevano prima dell’introduzione della regola sociale. Una visione politica, basata su queste leggi, sul modo in cui opera il mondo del vivente, è indisposta ad un potere monolitico (tecnocratico) che eterodirige gli elementi fondanti l’organismo stesso, sarà piuttosto propenso alla decentralizzazione, all’interdipendenza e alla diversità. Un potere diffuso, partecipativo, in qualche modo “accidentale”, la cui sede decisionale è nella vitalità della comunità di base, possibile solo in un contesto antropologicamente limitato.

Al contrario, lo “sviluppo economico” appare come un processo che:
- sancisce la sopraffazione della nostra specie su tutte le altre forme viventi, sugli ecosistemi e in generale sul mondo naturale: distrugge la diversità biologica;
- impone universalisticamente a tutta l'umanità di vivere secondo il modello tecnomorfo occidentale;
- sostituisce materia inerte al posto della sostanza vivente; mette strade, macchine, impianti, dove c'erano campi, foreste, paludi, savane.

Edoardo Zarelli – Arianna Editrice

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